Tagli alla cooperazione non alle spese militari
Il rapporto di ieri di Openpolis, realizzato in collaborazione con Actionaid, su quanto si spende in Italia per la difesa e per la cooperazione internazionale ha il merito di confermarci la gravità delle scelte compiute in questi anni dal governo e dal parlamento italiani. Openpolis ci ricorda che per ogni 10 euro spesi per le armi, se ne spende solo uno per la cooperazione e la solidarietà internazionale: questo in anni in cui si dice che per affrontare il dramma dell’immigrazione bisogna sostenere le economie dei paesi più poveri.
Secondo il Sipri (il prestigioso istituto svedese di studi per il disarmo) abbiamo speso nel 2014 ben 29,2 miliardi per la difesa (80 milioni di euro al giorno) e 2,9 miliardi per la cooperazione. 10 anni fa per le armi spendevamo 31 miliardi. Ma ci sono poi i soldi spesi per gli investimenti nei sistemi d’arma (ad esempio gli F35 o le fregate Fremm), inclusi nei capitoli di spesa del ministero dello Sviluppo economico.
Quindi, sostanzialmente non è cambiato granché negli ultimi 10 anni per la difesa. Mentre molto è cambiato in dieci anni per la scuola e l’università, cui il governo ha tagliato 8,5 miliardi; per la sanità (22 miliardi di tagli); per i comuni (27 miliardi di tagli, soprattutto ai servizi sociali). E anche la cooperazione ha avuto i suoi tagli. Dal 2005 ad oggi c’è stato quasi il dimezzamento dei fondi per la cooperazione, che è passata dallo 0,29 per cento allo 0,16 del Pil. Siamo ormai alle briciole.
E nonostante da alcuni mesi abbiamo una nuova legge sulla cooperazione, soldi nuovi non se ne vedono, mentre nel frattempo se ne promettono di più alle imprese, al mercato e al cosiddetto partenariato pubblico-privato. Più che una legge sulla cooperazione (con i paesi poveri) sembra una legge per la competizione (delle nostre imprese) sui nuovi mercati. E, come in un sistema di vasi comunicanti, il vice ministro degli esteri (con la delega alla cooperazione) ha lasciato il suo incarico per andare a fare il vice presidente dell’Eni.
E così continueremo a spendere tanti soldi per le armi. Altri 10,5 miliardi per gli F35 e poi altri 3–4 miliardi per le fregate Fremm. Nel frattempo è aumentato anche il nostro commercio di armi con agli altri paesi, mentre a livello mondiale il l’Institute for Economic and Peace ci dice che per le armi, le guerre ed i conflitti viene bruciata ogni anno la cifra stratosferica di 14mila miliardi di dollari, cioè il 13,4 per cento del Pil mondiale. Basterebbe una parte di quella cifra per risolvere per sempre i problemi di denutrizione e carestia, di accesso all’acqua e di lotta alle pandemie nel mondo.
Il governo italiano — con una ministra della difesa caduta in disgrazia a Renzi e sempre più inadeguata per il suo incarico istituzionale — ha da poco diffuso un «libro bianco sulla difesa» che conferma le scelte sbagliate fatte in questi anni e ha sfornato un Documento di programmazione pluriennale per la Difesa che ci conferma le folli spese in sistemi d’arma nei prossimi anni. Il rapporto di Openpolis ci ricorda che tra il 2009 e il 2014 si sono spesi per le missioni militari all’estero 8 miliardi di euro, di cui meno del 10 per cento è andato alla cooperazione e all’aiuto umanitario.
È la conferma di una scelta: a favore della guerra e dell’interventismo militare e non per la cooperazione internazionale. Una scelta che, tra l’altro, non ha pacificato e ricostruito condizioni di stabilità in Medio Oriente, ma che invece ha alimentato il terrorismo, il caos, i conflitti. Una scelta fallimentare che andrebbe ripensata. Non lo si fa per tanti motivi (politici, di potere, di relazioni internazionali), ma anche –soprattutto– perché al complesso militare-industriale (come si sarebbe detto una volta) il business delle armi e della guerra fa molto comodo: garantisce lauti guadagni e contribuisce a mantenere un ordine economico e politico mondiale fondato sull’ingiustizia.
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