ROMA E adesso quanto costerà mettersi al passo con la sentenza della Corte costituzionale? Come era già successo dopo la bocciatura del blocco sulle pensioni, ognuno tira i suoi numeri e la coperta dalla sua parte. Anche perché, in questo secondo pezzetto di austerity che se ne va, non ci dovrebbero essere arretrati da restituire ma solo aumenti da decidere. È vero che ogni trattativa sindacale è un’incognita: sai quando comincia, non sai come finisce e nemmeno se finisce. Ma stavolta un punto di partenza c’è, ed è una tabella scritta proprio dal governo.
Nel Def, il Documento di economia e finanza presentato ad aprile, il ministero dell’Economia ha previsto i possibili aumenti di spesa per gli stipendi della pubblica amministrazione. Solo un’ipotesi tecnica, fatta a «politiche invariate», cioè senza la proroga del blocco della contrattazione che scade alla fine di quest’anno. Dice la tabellina che nei quattro anni che vanno dal 2016 al 2019 si prevede un aumento di spesa pari a 21,2 miliardi di euro lordi. Le proiezioni a lungo termine lasciano spesso il tempo che trovano, anche per i conti pubblici. Ma diventa più vincolante quello che lo stesso governo ha scritto per l’anno prossimo. Nel 2016 il Def prevede un aumento di spesa pari a un miliardo e 664 milioni di euro. Sono questi i soldi «veri», da trovare nella Legge di Stabilità? Alla fine saranno meno. Intanto quella è la cifra lorda, che conteggia anche i soldi che torneranno indietro allo Stato sotto forma di tasse sull’aumento degli stipendi. Tolta questa voce restano circa 900 milioni di euro, che comunque non sono uno scherzo. Ma la cifra finale potrebbe scendere ancora. Il Def è stato costruito immaginando un’inflazione pari all’1,5%. Ed è su questo valore che sono stati calcolati gli aumenti «virtuali» degli stipendi per i dipendenti pubblici e la relativa crescita della spesa, sempre virtuale, da parte dello Stato. Solo che il valore reale dell’inflazione, in questo momento, è molto più basso, vicino allo zero. Il calcolo è da rifare, quindi, e dovrebbe portare a un risultato più basso.
Una prima risposta arriverà ai primi di settembre, quando il governo presenterà la nota di aggiornamento al Def, la vera base per scrivere poi la Legge di Stabilità. C’è però una piccola buona notizia per i dipendenti pubblici. È vero che la sentenza della Corte costituzionale vale solo per il futuro e quindi non dovrebbe prevedere la restituzione degli arretrati. Ma è anche vero che il blocco della contrattazione, dichiarato illegittimo d’ora in avanti, è in vigore fino alla fine dell’anno. Per i sei mesi che mancano alla fine del 2015, in sostanza, gli arretrati potrebbero essere dovuti. Qui una cifra di riferimento non c’è, Il Def non ne parla né potrebbe. Ma dovremmo essere intorno ai 3-400 milioni di euro, al netto delle tasse.
Sul tavolo della trattativa, però, non ci saranno solo i soldi. Con la riapertura della contrattazione debutterà anche una norma introdotta dalla vecchia riforma della pubblica amministrazione targata Brunetta. Prima sindacati e Aran, il datore di lavoro del pubblico impiego, si sedevano a due tavoli separati e in due momenti diversi: una volta per discutere gli aumenti, un’altra per cambiare le regole del contratto. Adesso, per la prima volta, le due cose si faranno insieme. E il governo è intenzionato a sfruttare questa leva per non dividere la torta degli aumenti in parti uguali per tutti. Non solo perché non se ne accorgerebbe nessuno: anche con quella voce da 1,6 miliardi scritta nel Def, i dipendenti pubblici avrebbero un aumento medio di 42 euro lordi al mese. Ma perché vuole cogliere l’occasione per spingere su alcuni settori della macchina statale, dove investire di più e pagare di più i dipendenti. La vera trattativa sarà questa. E non basterà qualche soldo in più per avere vita facile.
Lorenzo Salvia