Nell’astensionismo l’ultimo avviso alla politica in crisi
by redazione | 1 Giugno 2015 9:17
«Un dato su cui riflettere». È il commento rituale ogni volta che arrivano i numeri, sempre in crescita, dell’astensione. Ma se un elettore su due non partecipa alla scelta del presidente della sua Regione, non si tratta di «un dato su cui riflettere»; è un allarme sulla tenuta della nostra democrazia.
Le cause sono molte, e più serie del «ponte» e del bel tempo. I privilegi, gli sprechi, i vitalizi, gli scandali che hanno macchiato la figura del consigliere regionale. Lo sfilacciarsi dei partiti tradizionali. La faida interna al Pd, culminata con lo psicodramma degli «impresentabili». La sensazione, inevitabile per l’elettore, di farsi quasi complice di un ceto politico ripiegato su se stesso, liquido, intercambiabile, con casi limite come quello delle Marche, dove il «governatore» di centrosinistra si è ricandidato con il centrodestra. La scena strepitosa di Berlusconi che sbaglia comizio e arringa i militanti del Pd ne è la conferma: in quel comizio non c’era all’evidenza una sola bandiera, un’insegna, un drappo che lo connotasse.
La campana dell’astensione suona per tutti. La destra, da sempre maggioritaria nel Paese, fatica a mobilitare ovunque i suoi elettori, che non sono diventati tutti cacciatori di rom e seguaci di CasaPound. Grillo ottiene un grande successo, ma non è facile neppure per lui trasformare la rassegnazione in indignazione, fare il pieno dei voti antisistema. E anche Renzi dovrebbe preoccuparsi.
Tradizionalmente l’astensione favorisce la sinistra. Ma la forza di Renzi è giocare la partita a tutto campo. Renzi non si è mai posto come antiberlusconiano, ma come postberlusconiano. È chiaro che l’outsider di Rignano non è paragonabile al padrone delle tv e del Milan (quello di Sacchi e Capello, non quello di Seedorf e Inzaghi), ma il messaggio che ha lanciato in questi mesi agli elettori delusi dal Cavaliere è stato chiaro: prima avevate lui; ora avete me. All’evidenza, quel messaggio non è passato del tutto. Così come non è ancora riuscito il tentativo di domare l’antipolitica e farne una forza di cambiamento: proprio ciò di cui Renzi avrebbe bisogno, per vincere le resistenze che incontrano le sue riforme.
Il tono medio del Paese non è più quello della rassegnazione e dell’autofustigazione, come pareva ancora poco tempo fa. Ci sono segnali di una volontà di ricostruire, forse più significativi dei flebili numeri della ripresa economica. C’è una volontà di partecipazione che si esprime nel volontariato, nell’accoglienza dei profughi, nell’impegno sociale. C’è un mondo cattolico, spesso molto giovane, galvanizzato dalla popolarità di papa Francesco. Eppure l’Italia della ricostruzione non si riconosce nella politica. La volontà di ripartenza non passa dalle urne. Perché la politica appare impotente. Inutile. In balia delle burocrazie europee. Tenuta sotto scacco non solo dalla Merkel o dalla Corte costituzionale, ma pure dal Tar del Lazio.
Eppure la politica non può arrendersi così alla propria irrilevanza. La nuova legge sui partiti sarebbe un passo importante: si deve attuare la Costituzione, che impone il «metodo democratico» alla partecipazione; e sarebbe bene introdurre norme certe per le primarie. Ma occorre fare molto di più per restituire fiducia ai cittadini. Serve una politica che decida e incida sulla realtà. E serve un taglio drastico a indennità, vitalizi, rimborsi e privilegi.