La forza del petrolio
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Per almeno altri sei mesi, cioè fino al prossimo vertice Opec del 4 dicembre, il petrolio resterà senza un guardiano. Domanda e offerta continueranno a rincorrersi e i prezzi si muoveranno oscillando senza precise direzioni senza nessuno che cerchi di «regolarne» gli andamenti aprendo o chiudendo il rubinetto.
Si chiama, nel gergo degli economisti, movimento a «W». Ciò che accade è che per la seconda volta consecutiva, dopo cioè la riunione di novembre, il cartello dei Paesi produttori e il suo principale «azionista» Arabia Saudita hanno confermato (venerdì) la decisione di abdicare allo storico ruolo di swing producer . Cioè di produttore che dall’alto della sua capacità, dei suoi costi ridotti e della sua forza (l’Opec vale circa il 35% dell’output mondiale) è in grado di orientare il mercato.
Come negli anni ‘80
I sauditi conoscono bene questa mossa, avendola già praticata altre volte. Nel 1985-86 inondarono di barili il mondo occidentale e in pochi mesi il prezzo crollò da 35 a 10 dollari rimettendo in riga tutti gli altri rivali. Oggi in qualche misura la storia si ripete, con l’ottantenne ministro del petrolio saudita, Alì al-Naimi, che persevera nel far giocare al resto del mondo una «partita delle quote». Un match con l’obiettivo dichiarato di buttare fuori dal mercato i produttori di shale oil e tight oil a stelle e strisce, cioè di quel petrolio «non convenzionale» che ha consentito all’America di tornare a essere il primo produttore mondiale.
Non è detto che ci riesca, perché la storia non si ripete mai allo stesso modo. Ma la musica resta per il momento quella suonata dai sauditi. Gli americani dello shale ; le compagnie petrolifere internazionali o nazionali; i Paesi non-Opec come la Russia (secondo produttore mondiale); quelli europei (Italia inclusa); le superpotenze asiatiche.
Riserve da ricostituire
Tutti si trovano costretti a ballare, anche se gli effetti risultano parecchio differenti per gli uni e per gli altri. Le compagnie petrolifere di «Big Oil», ad esempio, con il barile sceso da 115 a 45 dollari da giugno 2014 a gennaio 2015 (e oggi risalito a 62 dollari) sono finite sulla graticola. I loro ricavi sono crollati, e non poteva essere altrimenti: per Bp e Shell del 41 e del 40% nel paragone tra il primo trimestre 2015 e quello di un anno prima; per Chevron e Exxon del 38 e del 37%; per Total del 33%, per l’Eni del 30%. I piani di investimento sono stati tagliati, e anche se i primi a saltare sono stati i progetti più costosi e non ancora partiti, c’è il rischio che tra qualche anno fatichino a ricostituire le loro riserve. E per una compagnia petrolifera rimanere a secco di petrolio è assolutamente poco raccomandabile. Non è un caso che l’altro giorno a Vienna, davanti alla platea Opec schierata, il ceo del Cane a sei zampe Claudio Descalzi abbia chiesto ai Paesi produttori di fare la loro parte, se vogliono continuare a godere della torta, rendendo più elastiche le condizioni contrattuali che impongono alle compagnie. Si vedrà.
Di certo ai dolori delle imprese petrolifere non corrispondono lamenti dei Paesi consumatori. Il prevedibile futuro movimento a «w» dei prezzi del petrolio poco li preoccupa se l’oscillazione resterà, come è lecito attendersi, su livelli assai più bassi del passato.
Vantaggi per tutti
Nei quasi quattro anni fino a metà 2014 il petrolio ha conosciuto un’inconsueta stabilità, a un livello tra i 105-110 dollari al barile che ha fatto la felicità dell’Opec e delle compagnie. Ora, se ci si muoverà intorno ai 60 dollari, a trarne indubbi benefici saranno le economie occidentali.
Secondo le stime della Banca Mondiale un calo dei prezzi del greggio del 10% fa crescere i Paesi importatori tra lo 0,1 e lo 0,5%, in dipendenza dalla loro esposizione. In Europa, ad esempio, il greggio pesa sulle importazioni complessive di Spagna, Francia e Italia per il 35, il 28 e il 26%.
Difficile fare previsioni precise, ma secondo la Banca d’Italia, una stabilizzazione dei prezzi dei prodotti petroliferi sui livelli dello scorso dicembre comporterebbe per le famiglie un risparmio di 2,1 miliardi di euro, pari a 80 euro medi per famiglia l’anno. Per le imprese, un calo tra il 10 e il 15% si tradurrebbe in un risparmio pari a quasi un punto percentuale di costo del lavoro.
La mossa americana
Non male, tutto sommato. Se poi i produttori shale americani vendessero cara la pelle (come pare stia accadendo) riuscendo a produrre anche con un barile vicino o sotto i 60 dollari; e se l’Iran reclamasse una quota più alta all’interno dell’Opec una volta uscito dalle sanzioni (si tratterebbe di un altro milione di barili al giorno dal 2016), i prezzi potrebbero scendere ancora.
E non è detto che questa volta il custode saudita riesca a riprendersi le chiavi del condominio.
Si chiama, nel gergo degli economisti, movimento a «W». Ciò che accade è che per la seconda volta consecutiva, dopo cioè la riunione di novembre, il cartello dei Paesi produttori e il suo principale «azionista» Arabia Saudita hanno confermato (venerdì) la decisione di abdicare allo storico ruolo di swing producer . Cioè di produttore che dall’alto della sua capacità, dei suoi costi ridotti e della sua forza (l’Opec vale circa il 35% dell’output mondiale) è in grado di orientare il mercato.
Come negli anni ‘80
I sauditi conoscono bene questa mossa, avendola già praticata altre volte. Nel 1985-86 inondarono di barili il mondo occidentale e in pochi mesi il prezzo crollò da 35 a 10 dollari rimettendo in riga tutti gli altri rivali. Oggi in qualche misura la storia si ripete, con l’ottantenne ministro del petrolio saudita, Alì al-Naimi, che persevera nel far giocare al resto del mondo una «partita delle quote». Un match con l’obiettivo dichiarato di buttare fuori dal mercato i produttori di shale oil e tight oil a stelle e strisce, cioè di quel petrolio «non convenzionale» che ha consentito all’America di tornare a essere il primo produttore mondiale.
Non è detto che ci riesca, perché la storia non si ripete mai allo stesso modo. Ma la musica resta per il momento quella suonata dai sauditi. Gli americani dello shale ; le compagnie petrolifere internazionali o nazionali; i Paesi non-Opec come la Russia (secondo produttore mondiale); quelli europei (Italia inclusa); le superpotenze asiatiche.
Riserve da ricostituire
Tutti si trovano costretti a ballare, anche se gli effetti risultano parecchio differenti per gli uni e per gli altri. Le compagnie petrolifere di «Big Oil», ad esempio, con il barile sceso da 115 a 45 dollari da giugno 2014 a gennaio 2015 (e oggi risalito a 62 dollari) sono finite sulla graticola. I loro ricavi sono crollati, e non poteva essere altrimenti: per Bp e Shell del 41 e del 40% nel paragone tra il primo trimestre 2015 e quello di un anno prima; per Chevron e Exxon del 38 e del 37%; per Total del 33%, per l’Eni del 30%. I piani di investimento sono stati tagliati, e anche se i primi a saltare sono stati i progetti più costosi e non ancora partiti, c’è il rischio che tra qualche anno fatichino a ricostituire le loro riserve. E per una compagnia petrolifera rimanere a secco di petrolio è assolutamente poco raccomandabile. Non è un caso che l’altro giorno a Vienna, davanti alla platea Opec schierata, il ceo del Cane a sei zampe Claudio Descalzi abbia chiesto ai Paesi produttori di fare la loro parte, se vogliono continuare a godere della torta, rendendo più elastiche le condizioni contrattuali che impongono alle compagnie. Si vedrà.
Di certo ai dolori delle imprese petrolifere non corrispondono lamenti dei Paesi consumatori. Il prevedibile futuro movimento a «w» dei prezzi del petrolio poco li preoccupa se l’oscillazione resterà, come è lecito attendersi, su livelli assai più bassi del passato.
Vantaggi per tutti
Nei quasi quattro anni fino a metà 2014 il petrolio ha conosciuto un’inconsueta stabilità, a un livello tra i 105-110 dollari al barile che ha fatto la felicità dell’Opec e delle compagnie. Ora, se ci si muoverà intorno ai 60 dollari, a trarne indubbi benefici saranno le economie occidentali.
Secondo le stime della Banca Mondiale un calo dei prezzi del greggio del 10% fa crescere i Paesi importatori tra lo 0,1 e lo 0,5%, in dipendenza dalla loro esposizione. In Europa, ad esempio, il greggio pesa sulle importazioni complessive di Spagna, Francia e Italia per il 35, il 28 e il 26%.
Difficile fare previsioni precise, ma secondo la Banca d’Italia, una stabilizzazione dei prezzi dei prodotti petroliferi sui livelli dello scorso dicembre comporterebbe per le famiglie un risparmio di 2,1 miliardi di euro, pari a 80 euro medi per famiglia l’anno. Per le imprese, un calo tra il 10 e il 15% si tradurrebbe in un risparmio pari a quasi un punto percentuale di costo del lavoro.
La mossa americana
Non male, tutto sommato. Se poi i produttori shale americani vendessero cara la pelle (come pare stia accadendo) riuscendo a produrre anche con un barile vicino o sotto i 60 dollari; e se l’Iran reclamasse una quota più alta all’interno dell’Opec una volta uscito dalle sanzioni (si tratterebbe di un altro milione di barili al giorno dal 2016), i prezzi potrebbero scendere ancora.
E non è detto che questa volta il custode saudita riesca a riprendersi le chiavi del condominio.
Stefano Agnoli
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