Il venerdì di sangue della jihad globale
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Il venerdì nero. Un giorno di terrore globale. Prima la fabbrica in Francia, poi la moschea in Kuwait e le spiagge in Tunisia. A chiudere i soldati africani trucidati dagli Shebab somali. Bersagli classici. Solo pochi giorni fa, il portavoce dello Stato islamico, Al Adnani, ha esortato a trasformare il mese del Ramadan «in calamità per gli infedeli», per i nemici, a cominciare dagli sciiti. E sono seguite 24 ore di sangue. Obiettivi diversi ma perfettamente inseribili nella coreografia dell’Isis, versione horror di quella di Al Qaeda. I seguaci del Califfato — proclamato il 29 giugno di un anno fa, altra data simbolo — hanno rivendicato il massacro kuwaitiano, per gli altri episodi il coinvolgimento è tutto da dimostrare ma non è azzardato pensare alla sua capacità di ispirare o semplicemente di influenzare. È un estremismo dove non servono ordini e legami veri. Agiscono invece con un’altra logica gli Shebab, ieri all’assalto di un’installazione a Leego, dove hanno assassinato dozzine di militari. La fazione è rimasta fedele al qaedismo, però usa i metodi feroci e riti visti in Siria o in Iraq. Spara su persone in divisa, falcia senza pietà i clienti di un centro commerciale, come è avvenuto a Nairobi, nel 2013.
La Francia: i cristiani
L’attentato vicino a Lione sottolinea tre aspetti. Dimostra che anche un impianto chimico può diventare un target pagante per i terroristi. Il sito è nella lista dei luoghi sensibili ma non può essere tramutato in una fortezza. E questo vale per centinaia di strutture in Francia e nel resto d’Europa. Il timore è che Yassin Salhi abbia indicato la strada, altri potrebbero emularlo come lui ha copiato i tagliagole. La decapitazione — la prima in Europa dopo un caso analogo in Gran Bretagna — e la bandiera nera sono una costante dei piani sventati in questi mesi, dagli Usa all’Australia. Imitazione dello scempio visto con gli ostaggi a Raqqa. Quanto è avvenuto a Saint-Quentin costringerà le forze di sicurezza ad allungare le risorse insufficienti. Altro elemento è quello della sorveglianza. Di nuovo, l’estremista era noto, lo avevano monitorato, poi si è calmato per tornare infine nella nebulosa radicale. Niente complotti, oggi i potenziali terroristi sono troppi. Servono dozzine di agenti per una copertura totale. Vale sempre la regola dell’Ira irlandese: voi dovete sempre essere fortunati, a noi basta una volta sola (per fare centro). Infine c’è l’impatto sociale, disgregante. Ed è quello che l’Isis e altre formazioni qaediste ricercano.
Tunisia: l’economia
È terreno fertile. Ha fornito migliaia di guerriglieri partiti per Libia (dove sono la componente principale dell’Isis), Iraq e Siria. Ha visto crescere gruppi esistenti sul suo territorio. I qaedisti della brigata ibn Nafaa attivi sulle montagne di Kasserine, gli scissionisti pro Isis di Ajnad al Khilafa, i salafiti di Ansar, i «nuovi» dell’Isis. Con la strage del Bardo hanno aperto un varco mai richiuso. Prima e dopo è stato uno stillicidio di conflitti a fuoco, agguati, imboscate ai militari, omicidi mirati di esponenti laici. Fin troppo chiaro il progetto: uccidere degli occidentali, abbattere quei tunisini considerati degli scudi umani, danneggiare in modo irreparabile il settore turistico, una delle poche risorse di un Paese fragile. Dopo aver seminato terrore a Tunisi, i militanti si sono preparati, a loro modo, alla stagione estiva. E proprio Ajnad al Khilafa, ai primi di maggio, ha invitato i visitatori stranieri a stare alla larga. Non erano sbruffonate, purtroppo. Bensì moniti che anticipavano la tempesta.
Il killer di ieri ha poi dimostrato una certa flessibilità operativa. Non si esclude che sia arrivato dal mare. Un avvicinamento che ricorda quello usato dai militanti protagonisti dell’assalto a Mumbai e, più lontano nel tempo, agli sbarchi sulle spiagge israeliane di commando palestinesi. A questo proposito ci sono state un paio di segnalazioni britanniche sulla creazione di «unità di fuoco marittime» da parte di Al Qaeda nella terra del Maghreb, elementi addestrati però non a sparare tra gli ombrelloni ma piuttosto pronti a missioni suicide contro mercantili, yacht o navi da crociera. In questi mesi la Tunisia non è stata lasciata sola. La Francia, gli Usa e altri Paesi hanno cercato di sostenere la lotta al terrore. Inviando consiglieri, materiale, aiuti. Un aereo americano per l’intelligence, decollato da Pantelleria e Catania, ha condotto voli di ricognizione sulla regione di Kasserine. I suoi apparati hanno captato comunicazioni, movimenti. Qualche risultato è arrivato, con l’eliminazione di alcuni dirigenti islamisti. Uno sforzo non sufficiente a parare ogni fendente.
Il Kuwait: gli sciiti
È lo scenario iracheno, con lo scempio di fedeli sciiti in una moschea, musulmani considerati dall’Isis alla stregua di eretici, rinnegati, non persone. Per Abu Bakr al Baghdadi è un modo di prolungare la campagna contro l’avversario regionale. Non è un caso che abbia fatto lo stesso per marcare l’arrivo del suo movimento nello Yemen, mandando un uomo bomba sempre in un tempio musulmano e in Arabia Saudita.
Gli estremisti sperano di far esplodere, insieme agli ordigni, la società innescando la faida etnico-religiosa. E, ovviamente, allargano i confini del Califfato anche in Paesi dove possono contare su donatori importanti quanto discreti. Se non hanno abbastanza mujaheddin per creare una «base territoriale» si accontentano di attaccare, convinti che gli attentati spazzino via vite, aprano spazi politici, lacerino il tessuto di uno stato. È la lotta armata che poi permetterà ai seguaci neri di consolidare la loro presenza.
Assistiamo alla moltiplicazione dei terrorismi. Il fai-da-te, l’organizzato, l’ispirato, il diretto in modo remoto. A tenerli insieme, le vittime e la condivisione di un disegno plasmato nelle diverse aree a seconda delle possibilità. Gli esiti sono devastanti e non solo per i tanti innocenti uccisi. Che riescano o meno nei loro intenti, i criminali alimentano la percezione di una minaccia globale, incontrollabile, capace di toccare ogni passo della nostra vita. È un duello continuo, dove le mosse degli attentatori sono studiate per negare spazi comuni. Il luogo di culto, la hall di un albergo, un posto di lavoro sono tramutati in campo di battaglia dove le armi non sono sempre le stesse. Ma portano in dote vittorie per il Califfo o i suoi omologhi.
La Francia: i cristiani
L’attentato vicino a Lione sottolinea tre aspetti. Dimostra che anche un impianto chimico può diventare un target pagante per i terroristi. Il sito è nella lista dei luoghi sensibili ma non può essere tramutato in una fortezza. E questo vale per centinaia di strutture in Francia e nel resto d’Europa. Il timore è che Yassin Salhi abbia indicato la strada, altri potrebbero emularlo come lui ha copiato i tagliagole. La decapitazione — la prima in Europa dopo un caso analogo in Gran Bretagna — e la bandiera nera sono una costante dei piani sventati in questi mesi, dagli Usa all’Australia. Imitazione dello scempio visto con gli ostaggi a Raqqa. Quanto è avvenuto a Saint-Quentin costringerà le forze di sicurezza ad allungare le risorse insufficienti. Altro elemento è quello della sorveglianza. Di nuovo, l’estremista era noto, lo avevano monitorato, poi si è calmato per tornare infine nella nebulosa radicale. Niente complotti, oggi i potenziali terroristi sono troppi. Servono dozzine di agenti per una copertura totale. Vale sempre la regola dell’Ira irlandese: voi dovete sempre essere fortunati, a noi basta una volta sola (per fare centro). Infine c’è l’impatto sociale, disgregante. Ed è quello che l’Isis e altre formazioni qaediste ricercano.
Tunisia: l’economia
È terreno fertile. Ha fornito migliaia di guerriglieri partiti per Libia (dove sono la componente principale dell’Isis), Iraq e Siria. Ha visto crescere gruppi esistenti sul suo territorio. I qaedisti della brigata ibn Nafaa attivi sulle montagne di Kasserine, gli scissionisti pro Isis di Ajnad al Khilafa, i salafiti di Ansar, i «nuovi» dell’Isis. Con la strage del Bardo hanno aperto un varco mai richiuso. Prima e dopo è stato uno stillicidio di conflitti a fuoco, agguati, imboscate ai militari, omicidi mirati di esponenti laici. Fin troppo chiaro il progetto: uccidere degli occidentali, abbattere quei tunisini considerati degli scudi umani, danneggiare in modo irreparabile il settore turistico, una delle poche risorse di un Paese fragile. Dopo aver seminato terrore a Tunisi, i militanti si sono preparati, a loro modo, alla stagione estiva. E proprio Ajnad al Khilafa, ai primi di maggio, ha invitato i visitatori stranieri a stare alla larga. Non erano sbruffonate, purtroppo. Bensì moniti che anticipavano la tempesta.
Il killer di ieri ha poi dimostrato una certa flessibilità operativa. Non si esclude che sia arrivato dal mare. Un avvicinamento che ricorda quello usato dai militanti protagonisti dell’assalto a Mumbai e, più lontano nel tempo, agli sbarchi sulle spiagge israeliane di commando palestinesi. A questo proposito ci sono state un paio di segnalazioni britanniche sulla creazione di «unità di fuoco marittime» da parte di Al Qaeda nella terra del Maghreb, elementi addestrati però non a sparare tra gli ombrelloni ma piuttosto pronti a missioni suicide contro mercantili, yacht o navi da crociera. In questi mesi la Tunisia non è stata lasciata sola. La Francia, gli Usa e altri Paesi hanno cercato di sostenere la lotta al terrore. Inviando consiglieri, materiale, aiuti. Un aereo americano per l’intelligence, decollato da Pantelleria e Catania, ha condotto voli di ricognizione sulla regione di Kasserine. I suoi apparati hanno captato comunicazioni, movimenti. Qualche risultato è arrivato, con l’eliminazione di alcuni dirigenti islamisti. Uno sforzo non sufficiente a parare ogni fendente.
Il Kuwait: gli sciiti
È lo scenario iracheno, con lo scempio di fedeli sciiti in una moschea, musulmani considerati dall’Isis alla stregua di eretici, rinnegati, non persone. Per Abu Bakr al Baghdadi è un modo di prolungare la campagna contro l’avversario regionale. Non è un caso che abbia fatto lo stesso per marcare l’arrivo del suo movimento nello Yemen, mandando un uomo bomba sempre in un tempio musulmano e in Arabia Saudita.
Gli estremisti sperano di far esplodere, insieme agli ordigni, la società innescando la faida etnico-religiosa. E, ovviamente, allargano i confini del Califfato anche in Paesi dove possono contare su donatori importanti quanto discreti. Se non hanno abbastanza mujaheddin per creare una «base territoriale» si accontentano di attaccare, convinti che gli attentati spazzino via vite, aprano spazi politici, lacerino il tessuto di uno stato. È la lotta armata che poi permetterà ai seguaci neri di consolidare la loro presenza.
Assistiamo alla moltiplicazione dei terrorismi. Il fai-da-te, l’organizzato, l’ispirato, il diretto in modo remoto. A tenerli insieme, le vittime e la condivisione di un disegno plasmato nelle diverse aree a seconda delle possibilità. Gli esiti sono devastanti e non solo per i tanti innocenti uccisi. Che riescano o meno nei loro intenti, i criminali alimentano la percezione di una minaccia globale, incontrollabile, capace di toccare ogni passo della nostra vita. È un duello continuo, dove le mosse degli attentatori sono studiate per negare spazi comuni. Il luogo di culto, la hall di un albergo, un posto di lavoro sono tramutati in campo di battaglia dove le armi non sono sempre le stesse. Ma portano in dote vittorie per il Califfo o i suoi omologhi.
Guido Olimpio
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