Il mondo in bilico

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La guerra fredda, da tempo riesumata dal Novecento, si appresta a diventare calda. O, perlomeno, questo sembra l’esito possibile delle reciproche forzature che Stati Uniti e Russia hanno messo in campo. Gli improvvidi tentativi di allargamento a Est della NATO hanno alterato oltre misura equilibri già instabili. Da mesi è stata accesa la miccia della crisi ucraina, mentre si susseguono le esercitazioni aggressive delle truppe dell’Alleanza atlantica nell’area.

Da ultimo, in vista del probabile intervento militare in Libia, e così allargando alla sponda sud del Mediterraneo il teatro della tensione giunta al parossismo nell’Est Europa, il Pentagono ha annunciato Trident Juncture, un mese di manovre navali nel prossimo settembre, che prevedono l’impiego di quasi 25 mila militari della Nato che si muoveranno tra Italia, Spagna e Portogallo, con una presenza stanziale di marines statunitensi; la portaerei italiana Cavour è la prima scelta per ospitarli. Oltre all’obiettivo dichiarato – testare efficacia e tempi di reazione in caso di attacco nemico – è evidente il messaggio alla Russia. La quale replica con l’annuncio che nel corso di quest’anno saranno schierati oltre 40 quaranta missili balistici intercontinentali di nuova generazione, ovvero capaci di penetrare gli apparati di difesa anti-missilistica predisposti.

Il disequilibrio del terrore

Si torna a grandi passi, insomma, all’equilibrio del terrore. Un equilibrio reso però assai più precario, rispetto al Novecento, dalla perdita di ruolo e di potere decisionale delle classi politiche, in questi ultimi decenni progressivamente trasferito in mano ai grandi gruppi finanziari, ai fondi di investimento e alle corporations multinazionali. Basti ricordare come la guerra in Iraq sia stata innescata (peraltro ingannando scientemente l’opinione pubblica mondiale con le false prove sulle “pistole fumanti” di Saddam Hussein) dalle ingordigie del petroliere George W. Bush & family e di quelle del vicepresidente Dick Cheney, prestato a tal scopo alla politica dalla multinazionale Halliburton, dagli appetiti altrettanto voraci nel settore petrolifero e in quello della logistica per le forze armate; il terzo rapace di quella situazione è stato la Blackwater, multinazionale attiva invece direttamente nel comparto militare, punta di diamante del processo di privatizzazione delle guerre, destinataria di appalti miliardari in Iraq e ora, guarda caso, attiva sotto altro nome, Greystone, in Ucraina, dove da tempo ha inviato 150 esperti e contractor in sostegno attivo e addestramento del movimento ultranazionalista Settore Destro.

Davanti a questi scenari vale sempre la saggia, e sempre dimenticata, massima, secondo la quale la logica del botta e risposta, dell’escalation muscolare, dell’occhio per occhio, alla fine rende tutti ciechi. Ed è esattamente questa la dinamica con la quale storicamente sono nate le guerre: per cinico – e criminale – calcolo di interessi delle potenze, ma anche, e assieme, per i giochi pericolosi che alla fine scappano di meno agli apprendisti stregoni.

Il laboratorio Europa

Dopo il Medio Oriente, il teatro privilegiato di questi giochi pericolosi sta diventando sempre più l’Europa, già martoriata da due conflitti mondiali che hanno provocato decine di milioni di morti (è stato calcolato che nel “secolo breve”, complessivamente, siano rimaste uccise in atti di violenza di massa tra i 100 e i 150, se non addirittura 200, milioni di persone, cfr. Marcello Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, 2005).

I numeri delle guerre del passato sono decisamente impressionanti e sicuramente dimenticati. Del resto, sono pressoché sconosciuti quelli dei conflitti armati in corso, per così dire, in tempo di pace. Cifre che, per il solo anno 2014, vengono quantificate in 180 mila vittime e in costi economici di ben 14 mila miliardi di dollari (cfr. il recente Rapporto dell’Institute for Economics and Peace).

Following the money, insomma, se si vuole provare a capire cosa si muove sotto le cortine fumogene dei media mainstream e la propaganda dei governanti embedded.

Sempre l’Europa è il banco di prova della ristrutturazione della strategia della governance mondiale dopo quella che è stata definita la Prima guerra mondiale della finanza, vale a dire la crisi provocata nel 2007 e utilizzata, dai suoi stessi responsabili per una resa dei conti finale con il complesso di diritti e di Costituzioni democratiche costruite nel continente nella seconda metà del secolo scorso e sostanziati nel modello sociale europeo, che, dopo essere stato vulnerato progressivamente, ora si vorrebbe azzerare, partendo dal ventre molle della Grecia.

Le verità di papa Francesco versus il pensiero unico

I popoli, insomma, stanno pagando il salvataggio delle banche, come ha scritto ora papa Bergoglio nella sua rivoluzionaria enciclica Laudato si’ e come hanno detto e scritto in questi anni voci isolate e certo più flebili, perlopiù al di fuori delle istituzioni e della politica, la quale risulta sempre in altre faccende, decisamente meno vitali, affaccendata.

Le politiche del Fondo monetario internazionale sono criminali, ha ricordato pure Alexis Tsipras, avendone verificato direttamente gli effetti nel suo paese, da tempo sottoposto allo strangolamento finanziario e usato come cavia di laboratorio.

Si tratta di verità obiettive, documentate, addirittura evidenti, e non da oggi, a chiunque le voglia vedere. Ma i fatti e le verità non trovano quasi eco, e soprattutto effetti, se non nelle singole coscienze, neppure quando provengono dall’alto scranno del pontefice. Come ha scritto oggi in un editoriale del “manifesto” Raniero La Valle: «“Questo papa piace troppo” diceva la destra più zelante, allarmata al vedere masse intere di persone in tutto il mondo affascinate da un pensiero diverso dal pensiero unico. Però si faceva finta di niente, sperando che la gente non capisse. Il papa diceva che l’attuale sistema non ha volto e fini veramente umani, e stavano zitti. Diceva che questa economia uccide, e stavano zitti. Diceva che l’attuale società, in cui il denaro governa (Marx diceva “il capitale”) è fondata sull’esclusione e lo scarto di milioni di persone, e stavano zitti. Diceva ai politici che erano corrotti, e stavano zitti. Diceva ai disoccupati di lottare per il lavoro e ai poveri di lottare contro l’ingiustizia, e facevano il Jobs Act».

Con la stessa sordità della classe politica e di distrazione mista a indifferenza da parte dei cittadini, in Europa si stanno pericolosamente radicando razzismi vecchi e nuovi (ma, per carità, non chiamiamoli così che, ci ripetono media, osservatori e partiti, si tratta di paure e ansie in fondo comprensibili e tutto sommato legittime), sino a colorare di nero il quadro politico, e anche i governi, non solo nell’Europa dell’Est, con Ungheria e Ucraina in testa, ma pure in quella del Nord, da ultima la Danimarca con le elezioni di questi giorni, in nome della difesa dalla “invasione” dei migranti e dello “scontro di civiltà”.

Fenomeni che, peraltro, non riguardano solo l’Europa: ce lo ricorda in questi giorni l’inaudito massacro di Charleston, negli Stati Uniti, a opera di un razzista (ma, per carità, sfumiamo, chiamiamolo semplicemente un “ragazzo”, come sta facendo tutta la stampa; e viene da pensare a quali sarebbero invece state le definizioni a ruoli razziali capovolti,  se le nove vittime fossero state bianchi benestanti oppure poliziotti) assertore a mano armata della supremazia bianca.

L’umanità resa fuggiasca, come la ragione

Ogni giorno 42.500 persone scappano da guerre e persecuzioni, alla ricerca di asilo, ci dice l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Nel mondo i profughi hanno raggiunto quasi i 60 milioni, una cifra che dovrebbe impressionare e riempire per giorni le prime pagine e i talk show, invece assorbiti dal pavloviano sbavamento per Matteo Salvini, preoccupato dall’inseguimento del suo competitor in materia di propaganda xenofoba Beppe Grillo. Qualche piccolo rivolo di quell’umanità perseguita e fuggiasca arriva pure da noi, nelle crepe della Fortezza Europa, e stiamo vedendo a Ventimiglia con quali reazioni. La strage di Lampedusa è oramai dimenticata, nell’epoca senza memoria dell’informazione spettacolo e della comunicazione superficiale del social.

Di nuovo, l’unica voce, quanto meno dotata di autorevolezza e visibilità, che compie lo sforzo di analizzare le cause – premessa necessaria per trovare soluzioni – dell’esodo biblico, e del mare di sofferenza che sottende, pare quella di papa Francesco, che nella sua enciclica parla di desertificazione, di profughi ambientali, di riscaldamento globale, dei conflitti e delle responsabilità, non dimenticando di indicare le soluzioni, a partire dall’urgenza della giustizia sociale e della conversione ecologica; per provare a comprendere e spiegare ciò che succede nel mondo certo non bastano 140 caratteri.

Un’enciclica che muove alla speranza, perché le verità non cessano di essere pensate e dette, ma anche allo sconforto, specie per chi non è credente, data l’inconsistenza, o almeno la rarefazione, di un pensiero critico, stante l’insussistenza di una capacità di analisi sufficientemente complessa, di un progetto d’alternativa a questo stato di cose e di una soggettività politica in grado di interpretarlo, rappresentarlo e organizzarlo. Tanto più che il tempo per tutto ciò è in scadenza.



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