Il denaro non misura la feli­cità nazionale

Il denaro non misura la feli­cità nazionale

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La ormai vastis­sima let­te­ra­tura attorno alla misu­ra­zione della feli­cità rap­pre­senta pro­ba­bil­mente l’argomentazione che più di tutte sta con­tri­buendo a rove­sciare il Pil dal suo pie­di­stallo. Già negli anni set­tanta il “para­dosso di Easter­lin” mostrava come, seb­bene le per­sone più ric­che si dichia­ras­sero più felici, gli aumenti di red­dito non pro­du­ces­sero aumenti di feli­cità. Per di più, nel con­fronto tra paesi, non emer­geva alcuna rela­zione tra Pil pro capite e feli­cità: i cit­ta­dini dei paesi più ric­chi non erano più felici di quelli dei paesi più poveri. Que­ste con­clu­sioni, che sono state poi ricon­fer­mate negli anni ed enor­me­mente arric­chite di ulte­riori ana­lisi, evi­denze empi­ri­che e rela­zioni tra i diversi aspetti della vita delle per­sone, hanno per­messo di dimo­strare che effet­ti­va­mente «i soldi non fanno la feli­cità» e che fosse neces­sa­rio spo­stare l’attenzione della poli­tica dal red­dito alla feli­cità. Nume­rosi studi sulla feli­cità dimo­strano come ciò che più conta per gli indi­vi­dui siano la salute, le rela­zioni sociali e l’avere un lavoro prima del red­dito.
Misu­rare la feli­cità può appa­rire poco serio, invece si tratta di misure che hanno dimo­strato di essere piut­to­sto robu­ste. Tipi­ca­mente si chiede alle per­sone il grado di sod­di­sfa­zione — da 0 a 10 — della loro vita nel com­plesso, ma c’è grande varietà di metodi. L’utilità delle misure di feli­cità si basa sul fatto che a pre­scin­dere dalle con­di­zioni effet­tive, ai fini della valu­ta­zione del benes­sere delle per­sone ciò che conta è come esse si sen­tono effet­ti­va­mente: «Se esse defi­ni­scono delle situa­zioni come reali, que­ste sono reali nelle loro con­se­guenze», diceva lo psi­co­logo W.I.Thomas.
Gli eco­no­mi­sti ten­dono ad essere molto scet­tici sulle misure sog­get­tive, anche se in realtà spesso le uti­liz­zano, come dimo­stra la pre­senza delle aspet­ta­tive di imprese e con­su­ma­tori in molti modelli di pre­vi­sione della con­giun­tura eco­no­mica. Nel 2002 gli studi di psi­co­lo­gia cogni­tiva hanno valso il Nobel per l’economia a Daniel Kah­ne­man, il quale ha smon­tato alle basi l’idea di razio­na­lità eco­no­mica e il con­cetto di Homo oeco­no­mi­cus, mostrando come non sia sem­pre la mas­si­miz­za­zione del pro­fitto a gui­dare le deci­sioni eco­no­mi­che degli indi­vi­dui. Più recen­te­mente, un’economista come Richard Layard sug­ge­ri­sce l’indice di feli­cità quale unico pos­si­bile sosti­tuto del Pil come misura di rife­ri­mento per la poli­tica in quanto ine­qui­vo­ca­bil­mente posi­tiva: «The right sin­gle mea­sure of pro­gress must be the one that is self-evidently good. The only such mea­sure is the hap­pi­ness of the popu­la­tion».
Dopo decenni di ten­ta­tivi di tro­vare un’alternativa al Pil abbiamo quindi la solu­zione? Pur­troppo no. Il pro­blema sorge quando l’utile atten­zione alle con­di­zioni indi­vi­duali non guarda agli equi­li­bri della società nel suo com­plesso ed alle istanze di giu­sti­zia sociale. L’approccio sog­get­tivo discende diret­ta­mente dalle teo­rie uti­li­ta­ri­ste e già Jeremy Ben­tham, alla fine del set­te­cento, pro­po­neva un «feli­ci­fic cal­cu­lus» secondo il quale la cor­ret­tezza morale di ogni azione dipen­deva dalla quan­tità di pia­cere o dolore in grado di pro­durre.
Ma l’approccio uti­li­ta­ri­sta, come spesso ricorda Amar­tya Sen, non tiene conto degli appa­rati sociali, delle oppor­tu­nità e delle libertà che hanno impli­ca­zioni in ter­mini di giu­sti­zia sociale. L’utilitarismo ignora l’esistenza delle dise­gua­glianze e le vio­la­zioni dei diritti indi­vi­duali ed è inca­pace di tenerne conto indi­ret­ta­mente a causa della capa­cità di adat­ta­mento delle per­sone. Mino­ranze oppresse, lavo­ra­tori sfrut­tati, mogli sot­to­messe o inva­lidi pos­sono non aspi­rare più ad un cam­bia­mento per­ché hanno impa­rato a sop­por­tare il peso della loro con­di­zione. Altresì, a parità di red­dito, chi ha gusti più dispen­diosi tende a sen­tirsi più povero. Que­sto rende la misura della feli­cità una metrica debole se non accom­pa­gnata da indi­ca­tori che valu­tino l’effettiva sod­di­sfa­zione dei diritti e l’esistenza di dise­gua­glianze.
Inol­tre, la capa­cità di adat­ta­mento degli indi­vi­dui rende la curva della feli­cità nazio­nale sostan­zial­mente piatta (nel para­dosso di Easter­lin il Pil cre­sce ma la feli­cità resta oriz­zon­tale) mostrando solo oscil­la­zioni momen­ta­nee (anche a livello indi­vi­duale si vede come i livelli di feli­cità si recu­pe­rino spesso entro pochi anni da eventi trau­ma­tici). Sorge allora il dub­bio se anche nel lun­ghis­simo periodo il livello di feli­cità resti inva­riato: avremmo in que­sto caso a che fare un indi­ca­tore che rimane piatto attra­verso i secoli per­ché deter­mi­nato da fat­tori cul­tu­rali di fondo e dallo “spi­rito dei tempi”.



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