Giovani, sfruttati, senza carriera. Ecco chi sono i dottorandi in Italia
Non sono docenti, ma fanno lezione. Non sono lavoratori, ma le università li tassano, indipendentemente dalla capacità economica delle loro famiglie. Non sono studenti, perché hanno già una (o più) lauree, senza contare eventuali master o altre esperienze di lavoro. Sono i dottorandi di ricerca, svolgono una delle attività di ricerca più bella che ci possa essere: quella di base, nel momento in cui l’intelligenza è più viva, come la curiosità di scoprire il mondo della propria disciplina, e quello che esiste al di fuori dei confini, all’estero.
Lo scempio dell’università italiana li ha ridotti ad un silente proletariato dove per fare il proprio lavoro bisogna pagare. E il reddito che comunque si guadagna — perché la ricerca è un lavoro — è tra i più bassi in Europa. Questo, in sintesi, è il ritratto fornito dalla quinta indagine annuale dell’associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (Adi) che è stata presentata ieri alla Camera dei Deputati. Alcune cifre possono rendere l’idea: il numero dei posti di dottorato banditi annualmente a livello nazionale è diminuito del 25% per effetto del decreto ministeriale 45 del 2013 e della nota ministeriale 436/2014. Una realtà sulla quale si abbatterà il Jobs Act annunciato da Renzi per i ricercatori precari in autunno.
Dalla riforma Gelmini dell’università ad oggi, il nostro paese ha deciso di restringere al massimo il numero di chi inizia a lavorare da ricercatore in Italia. La tendenza è chiara dal 2012 quando l’Italia era il quinto paese europeo per numero di dottorandi (34.629), distaccata enormemente dagli altri paesi industrializzati simili dal punto di vista demografico: la Francia, al terzo posto, aveva più del doppio dei dottorandi italiani (70.581); il Regno Unito quasi il triplo (94.494);la Germania 208.500. In pochi anni l’Italia è precipitata al terzultimo posto nell’Eurozona.
Oggi la situazione è addirittura peggiorata, Senza un’immediata inversione di tendenza, nel 2016 la situazione diventerà insostenibile, in particolare negli atenei del Sud. Al momento esiste una forte sperequazione tra atenei del Nord e del Sud: per il XXX ciclo nazionale del dottorato, infatti, 10 università (in 8 città) garantiscono il 44% dei posti a disposizione, mentre 7 regioni (una sola nel Sud) coprono il 74,5% delle posizioni bandite.
Molti di questi dottorandi non hanno una borsa di studio. Lavorano gratis. Anzi, devono pagare. A questo scandalo, unico in Europa, si aggiunge l’aumento della tassazione fissa. Nel passaggio dell’ultimo ciclo, avverte l’Adi, la percentuale degli atenei che opperano una tassazione sui dottorandi senza borsa parametrata sull’Isee si è ridotta dal 60% al 53%, In altri 10 atenei la tassazione minima è aumentata, mentre si è ridotta la massima. In questo periodo, gli atenei che hanno aumentato la tassazione per chi non ha un reddito da lavoro di ricerca, sono saliti da 9 a 15.
Siamo già oltre il lavoro gratis, come per l’Expo. Lo stato italiano si fa pagare da chi studia e produce ricerca. Soprattuto al Sud. Allo stesso tempo non riconosce lo «status» giuridico del dottorando come lavoratore, al contrario di quanto accade negli altri paesi.
«C’è una concentrazione e polarizzazione delle risorse che esclude le aree deboli e penalizza il Sud — afferma Antonio Bonatesta, segretario Adi — Il sistema accademico, privo di risorse e sotto organico, si rivolge ai dottorandi per le attività accademiche. Lo sfruttamento del loro lavoro è chiaro. Bisogna riconoscere il diritto al reddito e di maggiori tutele sociali»
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