E a Roma gara di solidarietà per i profughi della Tibur­tina

by redazione | 14 Giugno 2015 18:11

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Seduto sulla moquette verde stesa su un asfalto che ormai comin­cia a farsi rovente, il ragazzo si ripara una scarpa con un pezzo di fil di ferro. Quando ha finito se la rigira tra le mani guar­dando il risul­tato. «Good, può ancora cam­mi­nare», dice sor­ri­dendo. Facile com­pren­dere la sua sod­di­sfa­zione. Per lui, come per le altre cen­ti­naia di eri­trei, etiopi e suda­nesi chiusi da giorni nel cen­tro Bao­bab di Roma, non distante dalla sta­zione Tibur­tina, le scarpe sono una com­po­nente fon­da­men­tale dell’abbigliamento, indi­spen­sa­bile per pro­se­guire il viag­gio verso il nord Europa.
Dopo la ten­sione dei giorni scorsi, quando un inter­vento del tutto inu­tile della poli­zia ha sca­te­nato il panico tra i migranti, adesso la situa­zione è leg­ger­mente miglio­rata. Molti degli otto­cento tran­si­tanti che affol­la­vano la strut­tura fino a solo due giorni fa sono par­titi, diretti verso le regioni del nord dalle quali spe­rano poi di pro­se­guire, a par­tire da domani quando finirà la sospen­sione di Schen­gen voluta dalla Ger­ma­nia per il G7, diretti verso la Ger­ma­nia e la Sve­zia. «Venerdì sera ne sono par­titi 150, anche loro diretti a nord», spiega Daniel Zag­ghay, il coor­di­na­tore della strut­tura. Nono­stante le noti­zie che arri­vano dal con­fine con la Fran­cia siano tutt’altro che incor­rag­gianti, anche ieri in molti hanno preso il treno per Ven­ti­mi­glia. La situa­zione, nel cen­tro, resta comun­que ancora dif­fi­cile. «Abbiamo ancora 450 per­sone, men­tre noi pos­siamo ospi­tarne al mas­simo 210».

Venerdì sera, al ter­mine di una riu­nione in pre­fet­tura, si è arri­vati alla firma di un pro­to­collo tra Comune e Fer­ro­vie dello Stato che con­sen­tirà di tra­sfor­mare il vec­chio Fer­rHo­tel in una strut­tura di acco­glienza per migranti. Non sarà un cen­tro Sprar, che richie­de­rebbe l’identificazione di quanti vi entrano, ma un rifu­gio gestito dal Comune che si farà carico anche dei lavori di ristrut­tu­ra­zione. Per­ché entri in fun­zione, però, ser­vi­ranno ameno una qua­ran­tina di giorni. Per l’immediato, invece, già da ieri sera la Croce rossa ha alle­stito una ten­so­strut­tura in un’area die­tro la sta­zione Tibur­tina nella quale potranno tro­vare allog­gio almeno 150 per­sone. Ci saranno anche un ambu­la­to­rio e una tenda per la distri­bu­zione dei pasti. Un primo passo in vista di un’estate che rischia di essere par­ti­co­lar­mente com­pli­cata, visto che a Roma arri­vano circa mille tran­si­tanti al giorno.

Ovun­que ti giri, all’interno del cen­tro, vedi bam­bini di tutte le età. Sono almeno il 30% degli oltre 400 eri­trei, suda­nesi ed etiopi pre­senti, e una parte di loro è arri­vato fin qui da solo. Tutto sono tranne che timidi, si vede che anche una situa­zione disa­giata come quella in cui si tro­vano ora è comun­que molto meglio di quello che si sono lasciati alle spalle. E’ bastato qual­che pal­lon­cino colo­rato por­tato dagli abi­tanti del quar­tiere, per sca­te­nare una festa.

Nel cor­tile del cen­tro insieme agli altri c’è anche Johan­nes. Ha 25 anni e dopo essere par­tito dall’Etiopia ha girato tutta la Libia prima di essere arre­stato dalla poli­zia a Brega, nel sud del Paese. «Hanno tele­fo­nato alla mia fami­glia e gli hanno chie­sto 2.000 dol­lari per libe­rarmi», spiega in un inglese sten­tato. In cella c’è rima­sto un mese prima di tor­nare libero e imbar­carsi per l’Italia su un gom­mone insieme altre 110 per­sone. «Pla­stica, really dan­ge­rous», dice.

Nei giorni scorsi c’è stato il solito ten­ta­tivo di qual­che for­ma­zione di destra di orga­niz­zare una pro­te­sta con­tro i migranti. Anzi­ché ade­rire, però, gli abi­tanti del quar­tiere si sono pas­sati la voce e hanno comin­ciato a rac­co­gliere vestiti, cibo, medi­ci­nali per i migranti che affol­lano il cen­tro. Nella via stretta in cui si trova il Bao­bab è un sus­se­guirsi con­ti­nuo di auto che arri­vano sca­ri­cando di tutto. «C’è biso­gno soprat­tutto di acqua e di pan­no­lini per bam­bini», dice Ste­fa­nia Botti, dell’associazione cul­tu­rale Laura Lom­bardo Radice che ha orga­niz­zato la rac­colta di pro­dotti. Arri­vano cas­sette di pelati e di frutta, con­fe­zioni di latte, biscotti. «Non si capi­sce per­ché nes­suno abbia deciso di aprire una scuola per ospi­tare que­ste per­sone che almeno avreb­bero potuto lavarsi e andare in bagno», pro­se­gue Laura. «Non si può restare immo­bili di fronte a que­ste scene, e quindi abbiamo pen­sato di darci da fare», dice invece una signora prima di comin­ciare a sca­ri­care buste cari­che di ali­menti dalla mac­china. Un con­cetto sem­plice, che qual­cuno però non sem­bra pro­prio voler capire.

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