Conflitti e soprusi, le 7 prove del mobbing
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ROMA Assodato che un capo insopportabile o malmostoso a giorni alterni e dei colleghi tenacemente molesti sei su sette (senza una corrispettiva voce a parte in busta paga) sono afflizioni comuni alla gran parte dei lavoratori, non tutte le angherie patite in ufficio da parte di superiori o di pari grado possono qualificarsi come mobbing . E garantire il diritto al risarcimento.
Per disincentivare azioni legali avventate di mobbizzati immaginari e offrire ai giudici di merito un prontuario garantito, in mancanza di una normativa specifica, la Corte di cassazione, con sentenza n.10037/2015 ha individuato delle linee guida per riconoscere il vero mobbing . Sette parametri con cui la vittima deve provare di essere stata danneggiata sul lavoro: ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio. Perché si configuri il mobbing devono ricorrere tutti e sette, non uno di meno.
Le vessazioni devono dunque avvenire sul luogo di lavoro (1). I contrasti, le mortificazioni o quant’altro devono durare per un congruo periodo di tempo (2) ed essere non episodiche ma reiterate e molteplici (3). Deve trattarsi di più azioni ostili, almeno due di queste (4): attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni lavorative, attacchi alla reputazione, violenze o minacce.
Occorre il dislivello tra gli antagonisti, con l’inferiorità manifesta del ricorrente (5). La vicenda deve procedere per fasi successive come: conflitto mirato, inizio del mobbing , sintomi psicosomatici, errori e abusi, aggravamento della salute, esclusione dal mondo del lavoro (6). Oltre a tutto quanto elencato, bisogna che vi sia l’intento persecutorio (7), ovvero un disegno premeditato per tormentare il dipendente.
Nel caso per cui si è arrivati in Cassazione, che riguardava un impiegato pubblico, i sette elementi chiave c’erano tutti. Il ricorrente era stato demansionato, emarginato, spostato da un ufficio all’altro senza motivo, umiliato nel ritrovarsi come capo quello che prima era il suo sottoposto, assegnato a un ufficio aperto al pubblico ma privato della possibilità di lavorare. Già nel merito, dopo perizie e testimonianze, era stata riconosciuta l’esistenza del mobbing (verticale, ossia messo in pratica dal superiore, quello orizzontale è tra colleghi), confermato poi anche nel giudizio di legittimità.
Sette requisiti non sono pochi, considerato che l’onere della prova sta in capo al lavoratore. Anche il ragionier Ugo Fantozzi, prototipo di tutti i mobbizzati d’Italia, avrebbe faticato a farsi risarcire dal professor Guidobaldo Maria Riccardelli che lo costringe a vedere le 18 bobine della Corazzata Potëmkin in ginocchio sui ceci mentre in tv c’è la partita della Nazionale.
Nella vita reale va appena meglio. Pochi mesi fa una dirigente del Comune de l’Aquila ha vinto la causa contro l’amministrazione. Fu sospesa per aver arrecato «disdoro» all’ente: non aveva portato le bottigliette d’acqua ai consiglieri durante una seduta estiva.
Giovanna Cavalli
Per disincentivare azioni legali avventate di mobbizzati immaginari e offrire ai giudici di merito un prontuario garantito, in mancanza di una normativa specifica, la Corte di cassazione, con sentenza n.10037/2015 ha individuato delle linee guida per riconoscere il vero mobbing . Sette parametri con cui la vittima deve provare di essere stata danneggiata sul lavoro: ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio. Perché si configuri il mobbing devono ricorrere tutti e sette, non uno di meno.
Le vessazioni devono dunque avvenire sul luogo di lavoro (1). I contrasti, le mortificazioni o quant’altro devono durare per un congruo periodo di tempo (2) ed essere non episodiche ma reiterate e molteplici (3). Deve trattarsi di più azioni ostili, almeno due di queste (4): attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni lavorative, attacchi alla reputazione, violenze o minacce.
Occorre il dislivello tra gli antagonisti, con l’inferiorità manifesta del ricorrente (5). La vicenda deve procedere per fasi successive come: conflitto mirato, inizio del mobbing , sintomi psicosomatici, errori e abusi, aggravamento della salute, esclusione dal mondo del lavoro (6). Oltre a tutto quanto elencato, bisogna che vi sia l’intento persecutorio (7), ovvero un disegno premeditato per tormentare il dipendente.
Nel caso per cui si è arrivati in Cassazione, che riguardava un impiegato pubblico, i sette elementi chiave c’erano tutti. Il ricorrente era stato demansionato, emarginato, spostato da un ufficio all’altro senza motivo, umiliato nel ritrovarsi come capo quello che prima era il suo sottoposto, assegnato a un ufficio aperto al pubblico ma privato della possibilità di lavorare. Già nel merito, dopo perizie e testimonianze, era stata riconosciuta l’esistenza del mobbing (verticale, ossia messo in pratica dal superiore, quello orizzontale è tra colleghi), confermato poi anche nel giudizio di legittimità.
Sette requisiti non sono pochi, considerato che l’onere della prova sta in capo al lavoratore. Anche il ragionier Ugo Fantozzi, prototipo di tutti i mobbizzati d’Italia, avrebbe faticato a farsi risarcire dal professor Guidobaldo Maria Riccardelli che lo costringe a vedere le 18 bobine della Corazzata Potëmkin in ginocchio sui ceci mentre in tv c’è la partita della Nazionale.
Nella vita reale va appena meglio. Pochi mesi fa una dirigente del Comune de l’Aquila ha vinto la causa contro l’amministrazione. Fu sospesa per aver arrecato «disdoro» all’ente: non aveva portato le bottigliette d’acqua ai consiglieri durante una seduta estiva.
Giovanna Cavalli
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