Charleston. L’ira di Obama: «Certe stragi solo da noi»
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CHARLESTON (South Carolina) Fuori, sotto il sole abbacinante di Charleston, turisti in pantofole e bermuda, apparentemente ignari dell’accaduto, esplorano gli angoli più affascinati della città vecchia, costruita dai portoghesi nella baia scelta per far sbarcare gli schiavi portati qui dall’Africa. Dentro la Ame Church, non lontana dal tempio metodista della strage, il reverendo John Richard Bryant parla di fede e di resistenza davanti alla moltitudine, soprattutto nera, riunita per una veglia di preghiera dopo la strage di mercoledì sera. Dylann Roof, un ragazzo di 21 anni animato da odio razziale e forse fuori di senno, ha assistito per 45 minuti a una funzione religiosa nella più antica e gloriosa chiesa metodista nera del Sud degli Stati Uniti, prima di tirare fuori la pistola che il padre gli aveva da poco regalato per il suo compleanno. Ha ucciso nove fedeli che assistevano alla funzione religiosa serale, compreso il pastore Clementa Pinckney: un leader religioso ma anche politico, senatore democratico del Parlamento del South Carolina, molto noto nella sua comunità.
Roof avrebbe risparmiato solo tre dei presenti e pare che prima di fuggire (è stato poi catturato in North Carolina, a 400 chilometri da qui) abbia urlato a uno dei superstiti: «Non ti ammazzo così potrai raccontare cosa ho fatto. Dovevo: stuprate le nostre donne, vi state prendendo questo Paese. Ve ne dovete andare».
L’America ha fatto il callo agli omicidi di massa e da qualche tempo è ripiombata nell’incubo della violenza razziale. Ma un massacro in una chiesa è ancora qualcosa capace di lasciare senza fiato, inebetito, anche questo Paese dalla pelle dura. «Se non sei al sicuro in una chiesa dove lo sei?» chiede Shona Holmes, una ragazza nera di 28 anni che deposita fiori e lumini davanti alla Emanuel African Methodist Episcopal Church sulla Calhoun Street.
A Washington Barack Obama fatica a trattenere rabbia e indignazione quando, dopo aver commemorato le vittime, chiede per l’ennesima volta all’America di farsi un esame di coscienza sulle conseguenze del suo permissivismo sulle armi da fuoco: «Prima o poi dovremo renderci conto come nazione che questo tipo di violenza di massa è ignoto agli altri Paesi avanzati». Un atto d’accusa anche contro l’inerzia del Congresso che non ha accolto le sue proposte in materia di controllo delle armi da parte di un presidente che ieri, dicono i biografi, è arrivato al 14esimo discorso pronunciato dopo che è stata commessa una strage.
Il reverendo Bryant lo dice con altre parole: «Muoiono più americani qui che nei campi di battaglia del mondo. C’è violenza nelle case, nelle scuole, nei parchi dove giocano i nostri bimbi. Ora anche nelle chiese». Indignazione, ma anche inviti alla solidarietà: c’è il timore di proteste violente, ma la comunità nera di Charleston sembra voler dare una risposta di unità e preghiera, come ha fatto anche dopo l’uccisione, ad aprile, di un nero disarmato, Walter Scott. L’agente che ha sparato è stato incriminato, la retorica incendiaria di Al Sharpton è stata respinta da dai leader neri e dalla stessa famiglia della vittima. E Charleston non è diventato il luogo di sommosse e roghi come è accaduto a Ferguson e a Baltimora.
Anche oggi i leader invitano a ritrovare la forza per andare avanti nell’unità e nel perdono ma non tutti sono così remissivi: Jamie Majors, attivista nero di Black Lives Matter , scandisce davanti ai giornalisti: «La mentalità schiavista a Charleston è ancora forte. Non possiamo nascondercelo, c’è ancora molto da fare».
La polizia e il sindaco Joe Riley cercano di tranquillizzare: un caso isolato, un razzista pazzo venuto da lontano (un villaggio rurale vicino Columbia, cento miglia da qui), fuggito lontano e già catturato. Strade riaperte, caso chiuso. Mentre la comunità nera piange le sue vittime, sei donne e tre uomini, i molti turisti (in città è appena finito lo Spoleto Festival Usa, manifestazione gemella del Festival dei due Mondi della città umbra), tornano ad affollare il vecchio mercato degli schiavi trasformato in mercato artigianale.
Roof solo un pazzo? Se lo era, notano in molti, un pazzo lucido che ha scelto con molta cura il suo bersaglio: la chiesa della più antica congregazione metodista del Sud. Un luogo simbolo delle sofferenze della comunità nera da quando, nel 1822, uno dei suoi fondatori, Denmark Vesey, fu impiccato insieme ad altre 35 persone per aver tentato di organizzare una rivolta degli schiavi e il tempio fu dato alle fiamme. Fino a quando, mezzo secolo fa, le parole della battaglia per i diritti civili di Martin Luther King risuonarono anche sotto questa navata: «Se tieni duro e vai avanti nonostante tutto, scoprirai che Dio marcia con te». Le ha ricordate ieri anche Obama, celebrando per l’ennesima volta la sua impotenza presidenziale.
Massimo Gaggi
Roof avrebbe risparmiato solo tre dei presenti e pare che prima di fuggire (è stato poi catturato in North Carolina, a 400 chilometri da qui) abbia urlato a uno dei superstiti: «Non ti ammazzo così potrai raccontare cosa ho fatto. Dovevo: stuprate le nostre donne, vi state prendendo questo Paese. Ve ne dovete andare».
L’America ha fatto il callo agli omicidi di massa e da qualche tempo è ripiombata nell’incubo della violenza razziale. Ma un massacro in una chiesa è ancora qualcosa capace di lasciare senza fiato, inebetito, anche questo Paese dalla pelle dura. «Se non sei al sicuro in una chiesa dove lo sei?» chiede Shona Holmes, una ragazza nera di 28 anni che deposita fiori e lumini davanti alla Emanuel African Methodist Episcopal Church sulla Calhoun Street.
A Washington Barack Obama fatica a trattenere rabbia e indignazione quando, dopo aver commemorato le vittime, chiede per l’ennesima volta all’America di farsi un esame di coscienza sulle conseguenze del suo permissivismo sulle armi da fuoco: «Prima o poi dovremo renderci conto come nazione che questo tipo di violenza di massa è ignoto agli altri Paesi avanzati». Un atto d’accusa anche contro l’inerzia del Congresso che non ha accolto le sue proposte in materia di controllo delle armi da parte di un presidente che ieri, dicono i biografi, è arrivato al 14esimo discorso pronunciato dopo che è stata commessa una strage.
Il reverendo Bryant lo dice con altre parole: «Muoiono più americani qui che nei campi di battaglia del mondo. C’è violenza nelle case, nelle scuole, nei parchi dove giocano i nostri bimbi. Ora anche nelle chiese». Indignazione, ma anche inviti alla solidarietà: c’è il timore di proteste violente, ma la comunità nera di Charleston sembra voler dare una risposta di unità e preghiera, come ha fatto anche dopo l’uccisione, ad aprile, di un nero disarmato, Walter Scott. L’agente che ha sparato è stato incriminato, la retorica incendiaria di Al Sharpton è stata respinta da dai leader neri e dalla stessa famiglia della vittima. E Charleston non è diventato il luogo di sommosse e roghi come è accaduto a Ferguson e a Baltimora.
Anche oggi i leader invitano a ritrovare la forza per andare avanti nell’unità e nel perdono ma non tutti sono così remissivi: Jamie Majors, attivista nero di Black Lives Matter , scandisce davanti ai giornalisti: «La mentalità schiavista a Charleston è ancora forte. Non possiamo nascondercelo, c’è ancora molto da fare».
La polizia e il sindaco Joe Riley cercano di tranquillizzare: un caso isolato, un razzista pazzo venuto da lontano (un villaggio rurale vicino Columbia, cento miglia da qui), fuggito lontano e già catturato. Strade riaperte, caso chiuso. Mentre la comunità nera piange le sue vittime, sei donne e tre uomini, i molti turisti (in città è appena finito lo Spoleto Festival Usa, manifestazione gemella del Festival dei due Mondi della città umbra), tornano ad affollare il vecchio mercato degli schiavi trasformato in mercato artigianale.
Roof solo un pazzo? Se lo era, notano in molti, un pazzo lucido che ha scelto con molta cura il suo bersaglio: la chiesa della più antica congregazione metodista del Sud. Un luogo simbolo delle sofferenze della comunità nera da quando, nel 1822, uno dei suoi fondatori, Denmark Vesey, fu impiccato insieme ad altre 35 persone per aver tentato di organizzare una rivolta degli schiavi e il tempio fu dato alle fiamme. Fino a quando, mezzo secolo fa, le parole della battaglia per i diritti civili di Martin Luther King risuonarono anche sotto questa navata: «Se tieni duro e vai avanti nonostante tutto, scoprirai che Dio marcia con te». Le ha ricordate ieri anche Obama, celebrando per l’ennesima volta la sua impotenza presidenziale.
Massimo Gaggi
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