by redazione | 26 Giugno 2015 9:27
In una delle decisioni più attese dell’anno la corte suprema degli Stati uniti ha dichiarato legale le sovvenzioni federali alla sanità pubblica e salvato la riforma sanitaria implementata cinque anni fa da Barack Obama.
Con un voto di 6–3 i giudici hanno ritenuto legali i fondi federali elargiti ai singoli stati per sovvenzionare l’acquisto di assicurazioni mediche da parte di famiglie disagiate. Il programma era stato denunciato come un’ingerenza indebita di Washington nelle amministrazioni dei singoli stati e pur di boicottarlo molti governatori repubblicani di stati conservatori hanno rifiutato i fondi offerti dal governo. Il caso specifico era stato aperto a nome di quattro «singoli cittadini» ma in realtà era orchestrato dai repubblicani attraverso un think tank liberista, il Competitive Enterprise Institute. I legali del Cei avevano tenuto nascoste le identità delle presunte parti lese che si erano infine rivelate conservatori contrari alla «tassa sulla salute» (la legge prevede una penale imposta dall’erario a chi non acquista un piano sanitario).
Già tre anni fa la massima corte aveva affermato la costituzionalità della riforma Obama grazie al “tradimento” del suo presidente, John Roberts. Anche ieri Roberts ha firmato con i colleghi liberal la sentenza che riafferma in via definitiva il programma di governo del primo mandato Obama e una riforma per la quale, più che per ogni altra iniziativa il presidente verrà molto probabilmente ricordato.
«Oggi è un grande giorno per l’America» ha dichiarato Obama poco dopo la sentenza affiancato da Joe Biden nel rose garden della Casa bianca. Si è trattato invece di un’amara sconfitta per i repubblicani che hanno fatto dell’opposizione alla sanità «socialista» di Obama la chiave di volta di un ostruzionismo politico che ravvisa nello statalismo di Obama l’anatema ideologico più inviso a una destra sempre più amareggiata e isolata malgrado la maggioranza parlamentare conquistata nelle ultime elezioni.
Obamacare è così diventata singola ossessione e al contempo simbolo di inefficacia per il Partito repubblicano che dalla sua implementazione ne ha votato per ben 56 volte l’abrogazione in parlamento (pur senza disporre dei voti necessari a evitare il veto presidenziale). Questa ultima sentenza relega ancora più insostenibilmente nella parte “perdente” il loro partito. Compresi i numerosi pretendenti alla prossima nomination presidenziale, tutti pronunciatisi pubblicamente e ripetutamente contro. A favore cioè di un’abrogazione ancor meno plausibile ora che, come ha affermato Obama, «la legge è definitivamente parte del tessuto legislative del nostro paese».
Visibilmente soddisfatto, il presidente ha inserito la sua maggiore vittoria politica nella tradizione del new deal rooseveltiano. «Tre generazioni fa gli americani hanno istituito social security (le pensioni pubbliche, ndr). Due generazioni fa medicare (la previdenza per gli anziani, ndr). La nostra generazione ha scelto di completare l’opera». Ma dietro la retorica si cela la realtà: lungi dall’istituire una sanità sociale, la riforma è un moderato riordinamento normativo del colossale complesso sanitario privato che, pur limitando i soprusi più scandalosi dell’industria previdenziale (come le polizze annullate per malattia «eccessiva»), si limita a sancire l’obbligo dell’assicurazione privata, moderando i costi con una più ampia base di iscritti, ma regalando anche agli assicuratori milioni di nuovi clienti.
Solo lunedì lo stesso Obama aveva ammesso di aver scelto il minore dei mali per rimediare alla vergogna di una potenza industriale con 30 milioni di non assicurati. «Siamo uno dei pochi paesi al mondo che opera con questo strano regime misto pubblico e di settore privato che è sommamente inefficiente, ha costi elevatissimi e servizi non necessariamente all’altezza. Ma l’idea di poter di colpo sbarazzarci di un sistema che assorbe un sesto della nostra economia e impiega milioni di persone semplicemente non era realistica». Per quanto ieri abbia elogiato la riforma che rende la salute non più un privilegio per pochi, la realtà è che una famiglia media americana quel diritto lo deve pur sempre pagare 800 dollari al mese.
Rimane agli atti una pesante vittoria politica, per Obama la seconda nella stessa settimana dato che giunge due giorni dopo il voto che ha ribaltato nel Congresso l’opposizione al libero commercio. Inizialmente una fronda dei democratici aveva bocciato la sua richiesta di speciale autorità per negoziare i termini del trattato TPP con 12 paesi del versante Pacifico (la controparte al trattato TTIP per la liberalizzazione del commercio con l’Europa). Diventa così probabile l’adozione definitiva dei trattati liberisti su cui Obama è alleato con i repubblicani di industria e finanza.
Democratici, progressisti e sindacati sono invece compattamente contrari agli accordi che promettono di aumentare i poteri contrattuali delle corporation rispetto a stati sovrani e normative ambientali e di favorire l’ulteriore delocalizzazione globale del lavoro. Per Obama in sostanza una vittoria “democratica” e una “repubblicana”, che messe insieme premiano la sua dottrina del pragmatismo moderato.
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