by redazione | 26 Giugno 2015 8:57
Era cominciata male, finisce peggio. A metà pomeriggio il governo incassa la fiducia del Senato con 159 sì contro 112 no, dopo una giornata di tensioni e proteste continue, fuori e dentro l’aula ma anche dalle tribune in cui sedevano rappresentanti dei Cobas, al termine dell’ennesima giornata segnata dall’arroganza e dall’ostentato disprezzo del governo per il Parlamento.
Quattro senatori del Pd non hanno partecipato al voto: i ribelli della commissione cultura, Corradino Mineo e Walter Tocci, spiegano il loro gesto con apposito comunicato: «Non possiamo accettare un’altra riforma finta, una nuova rottura con milioni di elettori, l’ennesima mortificazione del Parlamento». Roberto Ruta, invece, chiede la parola per esprimere il voto in dissenso e in un intervento tanto stringato quanto perfetto demolisce la riforma evidenziandone tutti i punti debolissimi, non inutili ma controproducenti. Felice Casson si limita a non presentarsi in aula. Ai manifestanti assiepati di fronte al Senato però il non voto pare insufficiente. Quando passa Mineo lo contestano rumorosamente: «Vai dentro e vota no».
I bersaniani, invece, si piegano. Non è precisamente una novità. Miguel Gotor annuncia mesto la resa: «Voto sì, solo per disciplina di gruppo e partito. Ma i nostri elettori non ci perdoneranno facilmente questo tradimento». Parla con cognizione di causa. Per tutto il giorno ai senatori del Pd sono arrivati messaggi e telefonate dai territori, tutti sullo stesso tono, ricordando che non su questo programma il partito oggi di Renzi aveva ottenuto il loro voto.
Come previsto, la fiducia viene posta dal governo su un nuovo maxiemendamento, presentato dalla ministra Boschi proprio mentre stava per intervenire la collega che guida l’Istruzione, Stefania Giannini: la cortesia non è la dote principale di Matteo Renzi e della sua corte. Sbrigativa, la Boschi anticipa la Giannini, presenta il nuovo maxi-emendamento e pone la questione di fiducia. Da quel momento, la ministra dell’Istruzione farà scena muta, senza rispondere a una sola delle critiche mosse alla riforma per ore dall’opposizione. Un fantoccio privo di parola. Una ministra «commissariata», commenterà qualcuno. Sel protesta. «È assurdo che non dica una parola», sbotta Loredana De Petris. La ministra non si turba: resta bella statuina.
Contrariamente alle ipotesi della vigilia, il nuovo maxi-emendamento non contiene norme sia pur lievemente più favorevoli ai precari. La correzione riguarda solo un passaggio sbagliato nelle norme di bilancio. Tutte le opposizioni hanno preparato qualche forma di protesta vistosa. L’M5S si presenta con addobbi funerari e lumini a lutto, per celebrare le esequie della scuola pubblica.
Il presidente Grasso si adatta senza sforzo al ruolo di controllore dell’ordine pubblica. Capisce l’antifona e per un’ora almeno evita di dare la parola alla De Petris, per rinviare la protesta di Sel e di alcuni senatori del Gruppo Misto tra cui la Mussini, quella a cui lo stesso Grasso aveva cercato di negare il diritto di far parte della commissione Cultura: magliette bianche con scritto sopra «Diritto allo studio» e «Diritto all’insegnamento», una delle quali regalata alla ministra muta.
La Lega deve differenziarsi: è pur sempre un partito di destra. Srotola uno striscione surreale: «Difendiamo i bambini dalla scuola di Satana». Non ce n’è bisogno. Ci hanno già pensato i senatori Ncd, ottenendo in mattinata dalla ministra Giannini, poco prima che perdesse la favella, l’assicurazione che non si parlerà di gender. Sennò che «buona scuola» sarebbe?
La sfilata dei senatori che dichiarano il loro voto passando di fronte al banco della presidenza, come d’uso nei voti di fiducia, procede tra urla e proteste e fischi, con il presidente che si sgola minacciando di togliere ai più rumorosi il diritto di votare la fiducia. Le opposizione disertano la prima chiamata, nella speranza che i sì non arrivino al numero legale; poi votano contro in massa alla seconda.
Ma non sono le proteste in aula a rendere livida la giornata e posticcia la vittoria di Renzi. È la sensazione chiara, palpabile, confermata dalle proteste che piovono sui senatori piddini. Il vero divorzio tra Renzi e una parte sostanziosa quanto sostanziale del suo elettorato si è consumato davvero solo ieri. Ineffabile, il presidente della commissione Cultura Marcucci dichiara «Oggi è una bella giornata». Forse si prende in giro da solo. Forse ci crede, e sarebbe peggio.
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