WASHINGTON Ora si muovono per recuperare Ramadi. Il capoluogo era sotto assedio da mesi ma Bagdad, distante poco più di 100 chilometri, ha fatto ben poco per portare soccorso. Ha atteso colpevolmente che cadesse nelle mani dell’Isis. Una disfatta legata anche agli intrighi della politica interna e al complesso rapporto con gli alleati esterni, dagli Usa all’Iran. Con la Casa Bianca costretta ad ammettere la «battuta d’arresto».
Il governo ha mobilitato la Hashd al Shaabi, la milizia popolare sciita. Alcune migliaia di uomini, con veicoli e armi pesanti, hanno raggiunto la base di Habbanyeh. Da qui dovrebbe lanciare la riconquista con la copertura aerea della coalizione. L’arrivo dei militanti è stato reso possibile dal sì americano. Washington, come in altre situazioni, si è opposta al ricorso ai militanti sciiti nelle zone a maggioranza sunnita. Per tre ragioni: la volontà di avere uno Stato che agisce con il suo esercito; il timore — fondato — di violenze contro i civili; la necessità di non fare il gioco di Teheran che usa le milizie come un lungo braccio.
In queste settimane il premier iracheno Haider al Abadi ha provato ad assecondare la visione statunitense e per questo è stato aspramente criticato dai suoi rivali, i principali sponsor delle forze settarie.
Duri gli attacchi dell’ex primo ministro Nouri al Maliki che ha rinfacciato al rivale incapacità, debolezza e una linea troppo tenera davanti alle richieste sunnite. Un atteggiamento, quello dei filoiraniani, che ha confermato tutte le preoccupazioni di Washington. Ma che alla fine si è dovuta piegare accettando lo schieramento dell’Hashd. Vista la situazione sul terreno, con oltre 500 soldati uccisi e 8 mila profughi, poteva fare ben poco.
Del resto il comportamento delle unità regolari è stato ancora una volta disastroso. Molti reparti sono fuggiti — ci sono i video che lo documentano — e altri hanno abbandonato tonnellate di materiale. Solo qualche nucleo di coraggiosi, probabilmente membri della Golden Division, ha resistito all’offensiva jihadista, accompagnata dalla consueta ondata di attacchi suicidi. Al tempo stesso la sconfitta, provocata dall’abituale disorganizzazione, ha fatto il gioco di chi intende affidarsi solo (o quasi) alle milizie. Una fonte diplomatica citata dal New York Times ha affermato: «L’Iran sta usando al Maliki contro al Abadi, lo vuole debole». Se poi crepano in tanti poco importa.
Bagdad, intanto, ha annunciato la cacciata del generale Musa Kata, comandante della prima divisione a Anbar, ed ha accolto il ministro della Difesa iraniano, Hossein Dehghan, che avrà portato consigli. Il Pentagono, che in questi giorni ha continuato a rilasciare dichiarazioni non troppo preoccupate, ha promesso nuovo impegno, insieme all’invio di nuove armi. Non volendo rischiare truppe, gli Usa hanno dato spazio ai caccia. I comunicati riferiscono di una ventina di raid contro le posizioni dell’Isis a Ramadi. Interventi che molti analisti continuano a considerare insufficienti o comunque non decisivi su un fronte troppo ampio.
Galvanizzati dai successi, i jihadisti hanno continuato la loro offensiva, accompagnati anche dalla propaganda, con la diffusione sulla rete del vecchio audio del Califfo dove indica i futuri obiettivi, da Kerbala a Bagdad. I guerriglieri hanno poi ripreso gli attacchi nell’altro scacchiere, quello siriano. Fonti segnalano la conquista di due impianti petroliferi a est di Palmira: per fortuna sono lontani dal tesoro archeologico, ma i jihadisti hanno messo le mani su quello ciò che gli sta più a cuore: il greggio.
Guido Olimpio