«Obama mentì su Bin Laden » L’inchiesta del premio Pulitzer fa infuriare la Casa Bianca
by redazione | 12 Maggio 2015 9:56
WASHINGTON Oggi c’è il Califfo dell’Isis a dominare la scena. Una presenza possente quanto invisibile che non riesce però a far dimenticare il fantasma di Bin Laden. A riportarlo tra i vivi il giornalista americano e premio Pulitzer Seymour Hersh. Con un lungo articolo su London Review of Books, l’autore prova a demolire la versione ufficiale. Una ricostruzione polemica, basata su fonti anonime — e dunque più deboli —, e respinta dalla Casa Bianca: «Storia senza fondamento».
Hersh va subito al cuore sostenendo che l’intero blitz del maggio 2011 è stata un’azione concordata tra la Cia e il Pakistan sulla base di un baratto dove Islamabad ha offerto la testa di Osama in cambio di aiuti militari. La sua fonte è un ex funzionario dell’intelligence Usa. Secondo lo scrittore, nell’agosto del 2010, un alto ufficiale pachistano entra nell’ambasciata Usa e fornisce una dritta incredibile: Bin Laden, dal 2006, vive in stato d’arresto in una palazzina a Abbottabad. Una sistemazione concordata con i sauditi che pagano affinché i pachistani tengano nascosto l’ingombrante ospite. Per quella informazione la talpa chiede 25 milioni di dollari di ricompensa. La Cia acconsente, però ha bisogno di verifiche. Si rivolge, allora, al capo di Stato maggiore pachistano, Ashfaq Parvez, e al capo del servizio segreto Isi, Ahmad Pasha Kayani.
Nasce così un piano elaborato. I pachistani forniscono la prova del Dna con l’aiuto di un loro medico, Amir Aziz, che era stato mandato a Abbottabad per prendersi cura di un Osama molto malato. Quindi Kayani e Parvez stringono per l’intesa, raggiunta — secondo Hersh — nel gennaio del 2011. Islamabad vuole un lavoro semplice, con l’impiego di forze ridotte. Arriva una cellula della Cia a Tarbela Gazi, una testa di ponte per la missione mentre le unità speciali si allenano in un poligono nello Utah dove è stata costruita una palazzina identica a quella di Osama.
Quando parte il blitz i generali pachistani fanno di tutto perché gli elicotteri non incontrino alcuna resistenza, ritirano le guardie attorno al target, assicurano che non vi sia alcuna reazione. E questo spiegherebbe perché i radar non vedono gli «intrusi». Secondo Hersh gli unici colpi esplosi dai Seals sono quelli che privano della vita Osama. Nessuna battaglia. L’idea era quella di sostenere che il target era stato eliminato da un drone — prosegue il racconto — ma l’incidente del Blackhawk precipitato per un’avaria costringe a inventarsi uno scenario. Nella versione del giornalista è diverso anche il seguito. I proiettili — scrive — hanno mutilato i resti di Bin Laden e molti di questi saranno lanciati da un elicottero sui monti dell’Hindu Kush durante il viaggio verso la base in Afghanistan. Dunque il cadavere non sarebbe stato «sepolto» in mare. Per Hersh poi i commandos non hanno mai portato via documenti dall’ultimo rifugio di Osama. Per la semplice ragione — afferma — che non sono mai esistiti.
La storia del Pulitzer ha ovviamente suscitato i commenti di diversi analisti. A loro giudizio Hersh non offre prove tangibili, si basa su fonti anonime. A Abbottabad — ribattono — c’è stato per davvero uno scontro a fuoco. Peter Bergen, noto esperto di terrorismo, ha visitato la scena dopo l’assalto e ha visto prove inconfutabili della sparatoria. Altri ricordano che è stato lo stesso Ayman Al Zawahiri a confermare l’esistenza delle carte di Osama. Quanto alla presenza dell’informatore pachistano, non è una sorpresa: se ne era già parlato subito dopo l’attacco. Così anche di possibili (e prevedibili) complicità da parte di settori dei servizi pachistani.
Alla fine, però, ciò che conta è il risultato. E quello è stato raggiunto. Sul come, si continuerà a discutere a lungo.
Guido Olimpio