MILANO. «VIVO questo Primo maggio 2015 come una giornata cruciale, forse la più importante della mia vita di sindaco. Quando uscirò di casa per raggiungere l’area Expo, attraverserò una Milano divenuta più bella e vivibile per i miei concittadini, ma soprattutto una metropoli pronta a ospitare nazioni che rappresentano il 93% della popolazione mondiale; nello spirito del dialogo, della reciproca comprensione, della lotta comune contro la fame e le ingiustizie sociali». Giuliano Pisapia è a Palazzo Marino, dove ha ricevuto per tutta la giornata i capi di Stato che parteciperanno alla cerimonia inaugurale, dal presidente del Congo a quello degli Emirati Arabi Uniti. Mentre alcune centinaia di incappucciati No Expo imbrattavano il centro tirato a lucido, il sindaco scriveva il suo discorso di benvenuto. Dopo di lui, nell’arena da dodicimila posti, ci sarà il collegamento con papa Francesco e l’intervento del premier Renzi. Ma prima ancora Pisapia andrà a tagliare il nastro di uno dei padiglioni più importanti: quello della Repubblica popolare cinese. «Dicevano che non era pronto, pare che sia bellissimo».
Non ha paura delle avvisaglie di violenza, sindaco? «Certo che sono preoccupato, ma tutto il possibile è stato fatto. Con serietà. Non capisco poi chi concentra la protesta sulla presenza delle multinazionali nell’Expo. McDonald’s ha vinto un regolare bando di concorso. Coca Cola ha deciso di regalare il suo stand alla città, trasformandolo in un campo di basket. Milano e l’Italia trarranno molti benefici economici dall’Expo, ma il suo lascito più grande sarà quello del dialogo culturale e religioso avviato da oggi».
Festa e inquietudine, orgoglio ambrosiano e minacce di guerriglia. L’incognita dell’esposizione universale si manifesta nelle parole di un grande vecchio milanese che le ha prestato la sua opera di maestro del cinema, Ermanno Olmi, ma che ancora s’interroga sull’esito di una manifestazione in cui lo spirito commerciale non potrà ignorare le catastrofi umanitarie che lo lambiscono.
«Un conto è parlare di fame, un altro conto è patire la fame. Solo i poveri la conoscono davvero », mi dice Ermanno Olmi, malato ma indomito. «E allora per dare un’anima all’Expo di Milano, oggi, all’inaugurazione ufficiale, bisognerebbe far sedere in prima fila i profughi dalla Siria e dall’Eritrea. Basterebbe andare a recuperarli nell’atrio della Stazione Centrale, dove si sdraiano esausti dopo essere sfuggiti alla morte nel Mediterraneo».
Difficilmente l’appello di Olmi verrà esaudito stamane a mezzogiorno quando, nell’open air theater dell’area espositiva, prenderà il via la grande kermesse davanti a una folla di autorità, fra cui una ventina di capi di Stato e di governo.
Non solo nelle piazze di Milano, ma anche dentro al gigantesco contenitore, gli opposti sono destinati a toccarsi. Il poetico documentario di Olmi, «Il pianeta che ci ospita», verrà proiettato ogni giorno nella struttura lignea di Slow Food. La separano solo quaranta metri, e il padiglione del Turkmenistan, dal ristorante Mc-Donald’s, sormontato da una inconfondibile “M” di 25 metri quadri esposta in favore dell’autostrada. Poco più in là sorge la struttura di tre piani della Coca Cola.
Chiedo a Olmi se il prossimo semestre in cui Milano sarà testimone delle contraddizioni mondiali sia destinato a risolversi nell’inconciliabilità. Lui è drastico: «Coloro che fanno del cibo solo uno strumento di guadagno, vanno indicati come responsabili di una piaga che va oltre l’ingiustizia sociale. Quali che siano le loro intenzioni, l’iniqua distribuzione delle risorse contribuisce a fare della nostra epoca il tempo dell’odio e dell’indifferenza».
Eppure la Carta di Milano delinea un compromesso fra le regole del profitto e il diritto universale al cibo. Risposta: «Purché non si nasconda la verità. I poveri ci sono perché ci sono i ricchi. Meno saranno i ricchi e meno saranno i poveri. Svegliamoci. Io rifiuto il tentativo di questi grandi sponsor che si presentano come generosi protagonisti della lotta contro la povertà, proprio loro che hanno contribuito a generarla ».
Olmi non ha niente a che spartire con i teppisti che trasformano in ideologia violenta la denuncia dell’ingiustizia. Milano trasformata ieri in palcoscenico di guerriglia da sparuti manipoli di teppisti, è quanto di più lontano dal suo messaggio. Solo che oggi, Primo maggio, i messaggeri di violenza non saranno facili da isolare. Alla stessa ora dell’inaugurazione dell’Expo, in pieno centro, lontano dall’area di Rho Pero, sfileranno due cortei separati: da una parte le ormai numerose sigle del lavoro precario, dall’altra la manifestazione dei sindacati confederali. Ma è soprattutto in serata, davanti alla Scala dove Riccardo Chailly metterà in scena la Turandot, che rischiano di entrare in collisione Expo e No Expo.
Intanto la Milano industriosa e affarista, tirata a lucido e subito sfregiata con gli spray, curiosa di frequentare la sua Darsena rimessa a nuovo e le nuove linee della metropolitana, sembra trasformarsi anche in enorme agenzia di affittacamere (più o meno in nero). Chi può permettersi di sfruttare una rendita si è organizzato per tempo, ha svuotato gli appartamenti e li offre per una settimana o per un mese. Molti albergatori hanno rincarato le tariffe, suscitando l’irritazione degli stessi organizzatori dell’Expo che non sono riusciti a stipulare un accordo quadro con la categoria.
Sarà una faticaccia contenere la disputa sulla sovranità alimentare negli innumerevoli spazi di dibattito che pure la giunta Pisapia si è impegnata a dedicargli. Tanto più che da Armani che festeggia i suoi quarant’anni a Prada che inaugura la bellissima nuova Fondazione, i brand della moda milanese hanno convocato in città il fior fiore dello star system mondiale. Da Leonardo Di Caprio al no-global, tutti a Milano fianco a fianco.
In occasione di un Expo intitolato «Nutrire il pianeta, Energia per la vita», le multinazionali venute a condividere lo spazio dei 145 paesi espositori indossano l’abito della filantropia e dell’accountability. Stand riciclabili e ecocompatibili. Finanziamenti no profit. Concorsi per start up di giovani contadini. Scolaresche invitate a tariffe dimezzate. Spazio ai dj esordienti per l’animazione. È un bene o un male, questa passerella di responsabilità sociale dell’impresa?
Gli incappucciati che ieri hanno voluto accendere la tensione anti-Expo, recavano in testa al corteo studentesco una finta confezione di patatine fritte McDonald’s, prescelta insieme alle lattine di Coca Cola come assurda icona di un Nemico globale. Vado a incontrare l’amministratore delegato di McDonald’s Italia, Roberto Masi, e la faccenda si complica perché mi trovo di fronte a un manager che non somiglia affatto a un pescecane del capitalismo. Che effetto gli fa essere additato come un simbolo della mercificazione di Expo?
Masi risponde come un fiume in piena: «Invano, da anni, cerco di ottenere un confronto con Carlo Petrini e il movimento Slow Food. Mai ho avuto il bene di stringergli la mano, sarei felice di incontrarlo oggi stesso, primo maggio, visto che i nostri stand si trovano a pochi metri di distanza. Bisogna che si sappia, finalmente, che anche se McDonald’s è un marchio mondiale i nostri prodotti sono il frutto di una filiera agricola italiana. Chiedetelo ai coltivatori di grano di Ferrara, ai panificatori di Modena, agli allevatori di carne Chianina, ai frutticoltori di mele altoatesini. Mi viene da chiedere: chi è più slow food, noi o voi? Chi sfama il pianeta, i prodotti di largo consumo o i vostri pur bellissimi presidi?».
Provo a opporgli l’argomento della malnutrizione, il diritto al cibo buono, sano, giusto… «Ma lo sa che il tasso di obesità dei bambini italiani è fra i più elevati del mondo, nonostante che la quota di mercato McDonald’s sia fra le più ridotte? Anche noi siamo per la dieta variata, stiamo per lanciare il panino vegetariano». Ammetterete però che col vostro strapotere commerciale siete in grado di fare voi il prezzo, potete schiacciare i fornitori… «Lo chieda pure ai Consorzi agrari, se li facciamo guadagnare o li affamiamo, visto che lavoriamo sempre con gli stessi da molti anni».
L’investimento pubblico sull’Expo, nel corso di sette anni, ha rasentato 1 miliardo e 300 milioni di euro. Un altro miliardo lo hanno investito i paesi partecipanti. L’idea di progresso e di globalizzazione che potrà sortirne in una Milano che nel frattempo vende agli stranieri le sue squadre di calcio, i suoi grattacieli, la Pirelli e un bel pezzo della moda, è la vera incognita dei prossimi sei mesi. Senza contare le polemiche già innescate sul dopo Expo, quando in autunno si cominceranno a smontare i bellissimi, avveniristici padiglioni. Davvero si potranno traslocare a nord-ovest le facoltà scientifiche, dando vita a un nuovo polo tecnologico? E poi cosa ce ne facciamo dell’attuale quartiere di Città Studi, l’ennesimo deserto di cemento e ruggine?
Sottovoce circola il dubbio che, nonostante il presidio anticorruzione di Raffaele Cantone, passata la festa la magistratura milanese scoperchierà altre malversazioni tenute per opportunità in sordina. Ma davvero questo è il momento meno adatto per occuparsene, in una Milano che si è fatta bella e si è messa in vetrina.
Giuliano Pisapia arriva esausto sul palcoscenico del mondo. La disoccupazione cresce, dopo l’Inter avremo anche un Milan con gli occhi a mandorla, ma l’italica creatività sotto la Madonnina si è rimessa all’opera.