L’EUROPA è tornata alla normalità: ognuno per sé nessuno per tutti. Un quarto di secolo fa il Muro di Berlino crollava, la Porta di Brandeburgo veniva riaperta. Di qui conseguiva, stando alle oleografie del tempo, niente meno che la «riunificazione dell’Europa» (il fatto che non lo fosse mai stata pareva trascurabile). Oggi questo continente, in specie l’Unione Europea che per noi italiani ne è sinonimo, appare diviso in un arcipelago di isole che alzano ponti e fortificano barriere per sventare presunte invasioni barbariche, dove i barbari sarebbero (anche) altri europei.
Già orizzonte di pace e benessere, l’Europa è ormai associata a instabilità e impoverimento. Batte l’ora dei movimenti e dei partiti che lucrano sulla crisi europea. Ce lo ricorda la cronaca di questi giorni, con la vittoria di Andrzej Duda, candidato della destra nazionalista, alle elezioni presidenziali polacche, e l’affermazione di Podemos nel voto amministrativo di Barcellona e di Madrid. Sullo sfondo, un doppio possibile exit — il britannico dall’Ue e il greco dall’euro — illustra il grado di disintegrazione raggiunto dal processo di integrazione europea. Le emergenze belliche alle nostre frontiere, dall’Ucraina alla Libia e al Levante in fiamme, ci vedono in ordine rigorosamente sparso, ognuno intento a curare il proprio orto, mosso da letture del presente confitte negli stereotipi del passato.
La colpa sarebbe dei “populisti” di destra e di sinistra, da Salvini a Tsipras passando per Le Pen e Iglesias, irresponsabili agitatori che parlano alla pancia della gente esasperata dalla selvaggia crisi economica degli ultimi otto anni, da cui stentiamo a uscire, e dal senso di deprivazione che ne deriva. Tutti in un calderone — nazistelli, opportunisti e democratici sinceri. Bollati quali nemici del buon tono, che ci rovinano il gusto dei frutti dell’albero piantato sessant’anni fa dai padri fondatori.
Spiegazione di comodo. È ovvio che in questo clima avvelenato alcuni imprenditori politici speculino su paure diffuse — peraltro fondate — per raccattare voti e profilarsi come vendicatori del popolo contro i poteri stabiliti. È altrettanto scontato che costoro non abbiano interesse a risolvere i problemi che denunciano, e anzi godano ogni volta che il demone dell’eurocrisi avanza di un passo verso il baratro. Ed era prevedibile, come scrisse vent’anni fa Tony Judt, che l’europeismo di maniera intento a rimuovere la realtà delle nazioni sarebbe diventato «una risorsa elettorale dei nazionalisti virulenti ».
Ma se a questo siamo arrivati, significa che qualcosa di fondamentale non funziona più nel sistema europeo. Negarlo, come inclinano a fare le cancellerie europee e le cattedre dell’ortodossia europeista, per tacere dell’eurocrazia asserragliata dietro una cortina di acronimi, accelera la delegittimazione delle istituzioni che si intende protegge- re. I « populisti » non chiedono di meglio.
Il punto è che l’Unione Europea, figlia delle Comunità dei gloriosi anni Cinquanta, è finita fuori equilibrio proprio mentre veniva battezzata, nello scorcio finale del Novecento. La presunta nuova Europa altro non era che la vecchia Europa svuotata di senso. La costruzione comunitaria inscritta nel canone della guerra fredda verteva sulla bipartizione del continente, le sue due parti essendo ciascuna affidata alla malleveria di una superpotenza esterna. Tutti — controllori e controllati — condividendo la paura del ritorno della Germania alle velleità imperiali.
Esauriti i protettorati esterni e riunita la Germania, tornammo al paradigma del secolo precedente, con Berlino sorvegliata speciale dal resto d’Europa, incapace di evolvere oltre una germanofobia primaria. Chiedemmo allora ai tedeschi di cedere il marco in cambio dell’euro e di diluire il dominio della Bundesbank nella Banca centrale europea. Fatto. Naturalmente al prezzo, non voluto ma imposto dai rapporti di forza, di gestire la divisa comune secondo criteri di austerità cari all’ideologia monetaria tedesca, appena addolciti dalle mosse di Draghi che hanno finora sventato il collasso di questa curiosa area monetaria, smentita vivente (?) d’ogni manuale e di qualsiasi esperienza storica. Trascurammo poi di considerare che, esaurito il consenso di Washington (e di Mosca) — ovvero il protettorato a stelle e strisce di cui abbiamo fruito per quasi mezzo secolo — non c’è consenso di Berlino che possa surrogarlo. Alla Germania mancano potenza e vocazione per egemonizzare l’Europa, cioè per gestirla distribuendo incentivi ai gestiti. Mentre è convinta, con ragione — almeno nel breve periodo — di avere molto da guadagnare e poco da perdere dalla conformazione germanocentrica della zona euro.
In questo condominio senza amministratore e senza progetto di convivenza, prevalgono i puri rapporti di forza. E siccome nessuno è abbastanza autorevole da imporre le proprie regole, né tantomeno di fondarne di nuove basate su ragionevoli compromessi (ad esempio, riconoscendo che una moneta unica in un’area economica men che ottimale implica trasferimenti di ricchezza dai forti ai deboli), nella migliore delle ipotesi si vive alla giornata. Se poi consideriamo che la vocazione del leader massimo europeo, Angela Merkel, è precisamente quella di vivere alla giornata, non abbiamo diritto di meravigliarci del caos vigente. Né della refrattarietà germanica ad alterare tanto squilibrato equilibrio.
Perché le giornate degli europei non sono tutte eguali. Quelle tedesche sono ben più luminose delle nostre, non diciamo delle greche. Grazie al geniale euromeccanismo che i germanofobi vollero architettare per imbrigliare la Germania. Imbrigliando se stessi. E imbrogliandoci tutti.