by redazione | 28 Maggio 2015 11:38
Nel “residence” di Campo Farnia, 133 appartamenti per sette piani e più di trecento persone ospitate, sono disponibili tre lavatrici in comune. Erano dieci all’inizio, tutte rigorosamente per uso familiare e non industriale, ma poi l’usura del ciclo continuo ne ha rese inservibili la maggior parte. Il regolamento dei residence non consente il possesso di elettrodomestici privati di grandi dimensioni, così come non prevede l’utilizzo del gas per la cucina o altre comodità della vita quotidiana date per scontate. Per anni la “guerra” per accaparrarsi una lavatrice è stata una delle questioni centrali di una comunità sociale che è passata dalla condizione di occupazione a quella regolarizzata di «centro per l’assistenza alloggiativa» peggiorando paradossalmente le proprie condizioni di vita.
Nati più di dieci anni fa per volere della giunta Veltroni, i centri per l’assistenza alloggiativa (chiamati comunemente «residence») volevano istituire una camera di compensazione tra lo sfratto e la casa popolare. Un passaggio intermedio, rapido, capace di contenere l’emergenza sociale cittadina. Un tentativo fallito in partenza. Senza politiche per la casa, da subito i residence si sono trasformati in purgatori permanenti per famiglie in attesa decennale di casa popolare, un limbo che ha alimentato sperpero di denaro pubblico (i residence del comune sono in mano ai costruttori privati a cui il comune paga lauti affitti) e marginalità sociale.
In questa vicenda Campo Farnia rappresentava il tentativo progressivo di instaurare un rapporto con la questione abitativa che andasse al di là del mero scontro tra istituzioni e movimenti di lotta per la casa. Costituiva lo sforzo di avviare un dialogo. Il processo di regolarizzazione di un’occupazione, trasformata in «casa dello sfrattato», l’apice di un confronto immediatamente interrotto. Oggi che il sindaco Marino ha deciso (o, per meglio dire, minacciato) di chiudere i residence, le vicende di questa comunità transitata dall’illegalità al riconoscimento pubblico rischiano di tornare alla casella di partenza, disperdendo un patrimonio sociale notevole che, nel suo piccolo, ha vissuto anche i suoi momenti di gloria.
Impareggiabile l’emozione degli abitanti di Campo Farnia alla vittoria del docu-film Sacro Gra al Festival del cinema di Venezia nel 2013, girato per gran parte proprio dentro il residence.
L’eccezione Campo Farnia è quella di un centro abitato da 179 stranieri e 130 italiani che mai hanno visto, nel corso dei dieci anni di convivenza, scontri etnici di qualsiasi tipo. L’eccezione di un ghetto potenzialmente esplosivo che ha saputo inserirsi nel quartiere di Villaggio Appio producendo integrazione e non esclusione sociale, nonostante la maggior parte dei nuclei residenti continua a non avere alcuna possibilità di autonomia economica, capacità di immaginarsi in un contesto abitativo diverso dall’assistenza alloggiativa, per ragioni esclusivamente economiche.
Un esperimento sociale work in progress, che nel corso del tempo ha dato vita alla costruzione, nelle aree comuni del palazzo, di laboratori volti ad attenuare la marginalità dei nuclei familiari ospitati e allo stesso tempo integrare il centro con il quartiere circostante, unirlo alle vicende del suo territorio contribuendo a migliorarlo: dalla nascita dell’Ambulatorio Popolare, interamente autogestito e gratuito, che ha garantito per anni visite per elettrocardiogramma ed ecodoppler, nonché sostegno psicologico e fisioterapico, alle attività di sostegno allo studio, al laboratorio «Nati per leggere», scuola di avvio alla lettura per i bambini dai zero ai sei anni.
Un condensato di attività reso possibile dalla partecipazione dei residenti che nel frattempo, da comunità legata alla lotta per la casa, si sono evoluti in comunità partecipe dei destini del territorio e delle sue attività. Una scommessa vinta che oggi rischia di essere dispersa.
Nessuno, all’interno del residence, ha idea della fine che farà il 1 luglio prossimo, data entro cui il residence dovrebbe “scadere”. Tutti, però, hanno ferma la volontà di opporsi alla disgregazione di tale comunità virtuosa. Le continue assemblee degli abitanti che cercano una via d’uscita concordata con il municipio e gli assessorati competenti mettono in campo le più diverse soluzioni, su tutte quelle di rivendicare il diritto a rimanere nel residence in assenza di casa popolare.
Si profila una battaglia sul destino di questa «casa dello sfrattato», una battaglia tra una giunta comunale impossibilitata ad adempiere alle sue promesse (quelle di dare una casa ad affitto sostenibile alle famiglie in emergenza) e le esigenze di una comunità strattonata da una condizione di emergenza ad una di precarietà, senza mai avere la possibilità di decidere sul proprio destino. Dopo un decennio di incertezza, il minimo sarebbe rendere agli abitanti di questo palazzo il giusto diritto ad una stabilità abitativa.
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