La resistenza necessaria della scuola
Un «salto di qualità» nella consapevolezza degli effetti della valutazione sulla vita degli studenti e dei docenti. Per Valeria Pinto — docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli e autrice di un attuale volume sulla valutazione nell’università e nella ricerca «Valutare e punire» (Cronopio) — il successo delle proteste contro le prove Invalsi 2015 è il segno che in questi mesi, in corrispondenza con la riforma Renzi sulla scuola, c’è stato uno scarto di percezione su un tema fondamentale. «Fino a qualche tempo fa – afferma — la valutazione era un tema per addetti ai lavori. C’era un monopolio tecnico che non permetteva la discussione. Oggi sono in pochi a cadere nel tranello che la confonde con il giudizio. Il giudizio comporta un momento di invenzione. La valutazione è invece un processo meccanico che mette fuori gioco l’interpretazione. La riforma della scuola viene dopo l’approvazione del Jobs Act e quella della legge elettorale. La strategia a mosaico di Renzi è ormai delineata ed è stata compresa».
A cosa servono le prove Invalsi?
A misurare e a commisurare, cioè a mettere in concorrenza scuole, docenti, studenti, una parte del paese contro l’altra. In generale si vuole far passare l’idea che l’educazione dev’essere fondata su criteri oggettivamente misurabili. Una volta fissati determinati obiettivi dall’alto si adottano le strategie per raggiungerli. A questo proposito, i valutatori parlano di un esperimento di ingegneria sociale. L’espressione è da intendere in senso letterale, non metaforico. Le prove Invalsi, i test Pisa, e tutti gli altri dispositivi della valutazione rispondono a una visione politica che si realizza attraverso indicatori e non con l’interpretazione.
Il Ddl Renzi-Giannini sulla scuola viene criticato in particolare per l’autoritarismo del preside-manager. Sono timori giustificati a suo parere?
Sì. Si sta delineando una scuola dove viene meno la democrazia, mentre avviene un accentramento fortissimo delle decisioni in capo ad un’unica figura. È un modello di organizzazione verticistico che dirige un apparato tecnico senza lasciare spazio alla differenza. In questo sistema che opera per un fine prestabilito e univoco verrà meno ogni momento di vera libertà e possibilità di sottrarsi alla macchina dell’educazione. Gli insegnanti diventeranno tecnici dell’insegnamento che devono mettere in opera ciò che è stato deciso dall’alto.
E gli studenti?
Vivranno in una scuola dove il modello aziendale sarà applicato completamente, senza alcuno scarto.
Nel suo libro ha descritto la riforma Gelmini come uno strumento per «valutare e punire» studenti e docenti. La «Buona Scuola» a cosa servirà?
La scuola sta reagendo, non me l’aspettavo. Nonostante tutto, è rimasta un’enclave dov’è ancora viva l’idea del «pubblico». La scuola rappresenta uno degli ambiti politicamente decisiva perché nelle sue aule si formano le soggettività che votano, consumano e producono. Agire oggi su di essa significa portare un attacco contro una zona ultra-sensibile della società che ha opposto una resistenza al processo neoliberale in corso. Se passerà la riforma questo processo si completerà in maniera pericolosa.
È stata annunciata per il prossimo autunno la «Buona Università». Che cosa prevede?
L’istruzione sarà sottratta alla pubblica amministrazione ed è probabile che le posizioni di chi è assunto a tempo indeterminato verranno messe in discussione. Per i precari si parla di un Jobs Act dedicato solo a loro. In generale, non sarà modificata la linea della Gelmini ma, anzi, approfondita. Per questo spero che la scuola oggi riesca a contenere l’offensiva. Mi sembra che il governo si sia reso conto che la sua è stata una mossa sbagliata. Se continueranno a forzare la mano, com’è probabile, dovremmo attendere una nuova riforma che andrà avanti travolgendo ogni dissenso. Nessuno ha posto il problema della trasformazione dell’idea di istruzione prospettata da Renzi. Oggi l’università è debole.
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