La chiamano ripresa ma è stagnazione
«Paese in ripresa», «Cresce l’occupazione». È quanto si sente dire dalle parti del governo e da quelle dei media mainstream. Ma è proprio così? Vediamo cosa dice l’ultima nota mensile dell’Istat sull’andamento dell’economia italiana (aprile 2015).
Nell’insieme, essa racconta di un paese ancora in difficoltà, lontano da una prospettiva di vera crescita a breve termine. Lo fa partendo dall’Europa, dove l’avvenimento più significativo dall’inizio dell’anno, che ha innovato il rapporto tra l’autorità monetaria ed il sistema economico, è stato l’avvio del quantitative easing, l’arma di Draghi per rianimare il settore del credito e, di conseguenza, quello degli investimenti e dei consumi.
Un’operazione che, a due mesi dal suo lancio, non sembra dare risultati di rilievo, se è vero che l’eurozona si presenta ancora come un’area economica in affanno, tra crisi di fiducia dei suoi attori e, con pochissime eccezioni, magri risultati dal lato della produzione.
Nel primo trimestre di quest’anno il Pil è cresciuto solo dello 0,4%, troppo poco per parlare di ripresa. Ciò, mentre il tasso di disoccupazione è rimasto inchiodato al di sopra dell’11%, senza variazioni di rilievo da inizio anno. Di cosa parliamo?
Bè, senz’altro dell’insufficienza (o dell’inutilità) di politiche monetarie espansive in assenza di politiche fiscali di segno corrispondente.
In questa cornice, l’Italia ha fatto registrare su base congiunturale (rispetto al mese di marzo) un maggiore dinamismo dell’attività industriale (+0,6%), ma a trainarla sono solo i beni strumentali (+1,1%) e il comparto energetico (+3,6%).
Tutta l’industria trasformatrice, vera spina dorsale del sistema Italia, resta praticamente al palo. Non accenna a risalire neanche la fiducia dei consumatori, che scende da quota 110,7 a quota 108,2.
E l’occupazione? A fine marzo il governo aveva annunciato che grazie agli effetti della decontribuzione, nei primi due mesi dell’anno, c’erano stati «79mila contratti stabili in più». Poi venne fuori che, al netto delle cancellazioni e dei rapporti di lavoro scaduti (e non prorogati), i nuovi contratti non erano stati più di 13.
Ora l’Istat mette la parola fine a questa telenovela, attestando che «dopo i cali registrati a dicembre e a gennaio e la lieve crescita a febbraio, a marzo il tasso di disoccupazione sale ancora di 0,2 punti percentuali, arrivando al 13%. Nei dodici mesi il numero di disoccupati è cresciuto del 4,4% (+138 mila) e il tasso di disoccupazione di 0,5 punti». Numeri che fanno giustizia anche dell’interpretazione capziosa dei dati forniti in questi giorni dall’Inps sui nuovi contratti a tempo indeterminato.
Intanto è stato approvato il Documento di Economia e Finanza (Def) 2015, che conferma la linea del rigore fin qui seguita dagli ultimi governi.
Da un lato, infatti, si dichiara la volontà di imprimere una «forte discontinuità» nella politica economica del governo, per dare «una decisa accelerazione a investimenti e consumi», dall’altro vengono «confermati tutti gli obiettivi di finanza pubblica» tendenti al pareggio di bilancio entro il prossimo triennio ed annunciati nuovi tagli alla spesa per non meno di 10 miliardi.
Per l’anno in corso viene stimata una crescita del Pil dello 0,7%, che si fa più ottimistica per l’anno prossimo (+1,4%). Stime ancora basse e, comunque, tutte da verificare, visto anche il magro bottino del primo trimestre (+0,3%). Per quanto riguarda il lavoro, invece, si parla genericamente di una «graduale riduzione del tasso di disoccupazione», tutta da verificare e per nulla scontata, come lo stesso governo riconosce, un po’ fatalisticamente, nel Documento. Appare evidente, a questo punto, che senza un cambiamento di rotta reale nella politica economica del governo per il nostro paese saranno dolori nei prossimi anni. Balliamo sul crinale tra recessione e stagnazione, mentre l’area del disagio si estende a macchia d’olio ogni giorno che passa. L’idea che il lavoro si possa creare tagliando i diritti e che la ripresa si possa propiziare agendo sui salari e la produttività, si è rivelata palesemente errata, specialmente nel ciclo avverso. Né si può pensare (ed illudere) che una fuoriuscita dalle secche in cui ci troviamo possa avvenire nel rispetto fideistico dei vincoli del vigente patto di bilancio europeo, che impongono la rinuncia a nuovi investimenti. Ci viene in soccorso la storia: tutte le grandi crisi del passato, sicuramente quelle del secolo che abbiamo alle spalle, sono state risolte, dopo un primo e fallimentare approccio deflattivo, con un deciso intervento pubblico in economia e con politiche fiscali espansive, dal lato della domanda.
È stato così nella continuità democratica, ma anche nel passaggio da regimi democratici (o presunti tali) a regimi totalitari. Nel nostro caso c’è di mezzo un problema che si chiama Unione economica e monetaria, alla quale abbiamo ceduto una delle prerogative fondamentali di uno stato: battere moneta.
A questa cessione di sovranità, però, non è seguita una maggiore integrazione politica, su base democratica, del sodalizio europeo. E così, mentre la politica monetaria la fa un’istituzione formalmente impermeabile alle sollecitazioni del potere politico, quella economica è totalmente imbrigliata nel meccanismo di «sostenibilità della finanza pubblica», architrave su cui poggia l’odierno potere sovrabbondante della finanza speculativa. È possibile cambiare questa Europa? Sarebbe fortemente auspicabile. Qualcuno ha iniziato, tra mille difficoltà, anche a provarci. Nel frattempo, però, chi pensa al malato-Italia?
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