by redazione | 25 Maggio 2015 11:34
Ci sono milanesi, giovani donne, che sanno come comincia una guerra. Dijana Pavlovic, attrice e attivista Rom, oggi vive in zona Mecenate. Vent’anni fa era una ragazzina neanche maggiorenne che studiava Arte drammatica a Belgrado, nel mezzo di un Paese sul punto di esplodere, di nuovo. «Ero malnutrita, anemica. Mancava tutto, l’olio, lo zucchero, la cioccolata si recuperava di contrabbando, per anni ho cucinato solo con lo strutto di maiale. Al tempo stesso, però, la vita culturale era vivacissima, proprio perché non avevamo niente, i teatri erano pieni tutte le sere, in ogni locale c’era un reading di poesie, un momento di follia stranissimo. Ogni giorno potevi morire, ma intanto si nutriva l’anima…».
L’impatto con Milano fu uno choc. «Arrivai nel 1999, un mese prima che Belgrado fosse bombardata», in quanto moglie di un collega teatrante italiano. «Lui venne a prendermi all’aeroporto di Orio al Serio e mi condusse subito, gli occhi chiusi, in piazza del Duomo. Li aprii: non avevo mai visto nulla del genere, da perdere il fiato…». La prima volta di Djiana a Ovest. «Era tutto strano per me. Anche solo vedere in strada gente tranquilla e sorridente, le vetrine dei negozi… C’è voluto un po’ per ambientarmi. Ho scoperto la città poco alla volta».
Che cosa le è rimasto di quei tempi di esplorazione? E quali sono diventati i suoi luoghi di Milano?
«Certamente i Navigli. Ho vissuto a Belgrado, che è sul Danubio, e in ogni città cerco le vie d’acqua. I fiumi, o i canali, sono il cuore della città. Poi “L’ultima cena” di Leonardo: trovarmi davanti a qualcosa che avevo a lungo studiato è stato incredibile. Chi non è italiano non può neanche immaginarlo: un posto dove c’è la storia che hai letto sui libri…».
La città è stata accogliente?
«La mia esperienza è stata particolare, perché mi sono ritrovata all’interno della comunità artistica, molto aperta. Venivo da una situazione di grande tensione in Serbia, partecipavo alle manifestazioni contro Milosevic, ci picchiavano tutti i giorni… A Milano ho trovato pace, per un po’ di anni mi sono riposata. Anche se ho lavorato molto. Per mantenermi sono stata impiegata in un call center, ho fatto addirittura recupero crediti. Mentre continuavo con il teatro. Poi ho cominciato a sentirmi un po’ stretta».
Ha coinciso con il momento in cui ha «riscoperto» le sue origini Rom, e ha avviato una fase d’impegno…
«Era strano per me che in Italia nessuno sapesse niente dei Rom, non si trovavano libri in libreria, nessuno ne parlava, diversamente dalla Serbia. E io non lo rivendicavo. Poi è successo qualcosa. Recitavo all’Out Off, uscì un articolo su di me in cui si diceva anche che sono Rom, mi chiamò l’allora presidente dell’Opera Nomadi, Maurizio Pagani, per propormi uno spettacolo sul Porrajmos (l’Olocausto Rom). Ed è stato bellissimo…».
Da lì, la svolta. Ha cominciato anche a fare la mediatrice nelle scuole.
«Avevo accettato al principio con una visione romantica. Ho trovato una situazione terribile. Oggi è già meglio, ma in quegli anni c’era il pulmino Rom, la classe solo per Rom… Era insopportabile. È stata un’esperienza che mi ha aperto gli occhi. L’impegno è cresciuto. Ho accettato pure la candidatura alle amministrative nella lista Dario Fo per il Comune. E poi al le elezioni legislative con la Sinistra arcobaleno».
Non è stata eletta. Ma l’interesse per la politica l’ha conservato. Pochi giorni fa, ha invitato il leader della Lega Matteo Salvini a prendere un caffè seduti a un tavolo con i rappresentanti dei campi Rom. Preoccupata per gli appelli alle ruspe, scrive, che si nutrono di un disagio diffuso. (Lui ha accettato, ma dopo le elezioni). È ancora contenta di vivere a Milano?
«Non c’è un’altra città in Italia in cui vorrei vivere. Negli anni ho creato un rapporto profondo (grazie anche a un secondo marito milanese e a un figlio nato e cresciuto qui, ndr). Fa parte di me. Con tutti i suoi problemi».
Quali, in particolare?
«Le periferie, per esempio. Sotto casa mia, zona Mecenate, non c’è nulla. Se voglio una biblioteca, un cinema, devo andare in centro. Le uniche presenze sono dei bar in cui si beve e si gioca alle macchinette. Non c’è una struttura per i giovani, non hanno modo di esprimersi. E questo è un problema. Così la città muore. Expo sembra aver peggiorato la paralisi. Bisogna far circolare aria, le città devono vibrare. E a volte Milano, invece, rischia di fermarsi».
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