Decapitazioni di massa dell’Isis Cominciata la distruzione di Palmira

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Le brigate dei «figli di Zenobia» portano il nome della regina che costruì un impero da questa oasi in mezzo al deserto. Sono i primi ribelli che hanno combattuto tra le colline pietrose attorno alle meraviglie archeologiche di Palmira. Respinti dall’esercito del regime agli inizi del conflitto, non hanno potuto affrontare come avrebbero voluto l’offensiva dello Stato Islamico. Perché l’antica città patrimonio dell’Unesco è forse l’unico simbolo che potrebbe unire Bashar Assad e i suoi oppositori.
Il governo di Damasco ha perso il controllo dell’area che rappresenta la porta tra l’Oriente e l’Occidente della Siria come già ai tempi dei romani. La televisione di Stato ha assicurato che gli ultimi militari hanno aiutato i civili a evacuare. Gli attivisti rimasti a Palmira raccontano invece che sono ancora intrappolati, secondo le Nazioni Unite solo un terzo dei 200 mila abitanti è riuscito a fuggire.
I miliziani del Califfo avrebbero imposto il coprifuoco, hanno tagliato l’acqua e l’elettricità, cercano casa per casa i soldati lealisti, i morti nei combattimenti sarebbero almeno 400.
Una foto diffusa via Internet — non è possibile confermarne l’autenticità — mostra i cadaveri distesi su una strada, le teste mozzate: secondo i sostenitori dello Stato Islamico, sarebbero uomini della tribù Shaitat che appoggia Assad. I detenuti del carcere — simbolo della repressione del regime — sarebbero stati liberati: testimoni locali sostengono però che i prigionieri politici erano già stati spostati verso Damasco.
Gli archeologi temono che le truppe del Califfato devastino i monumenti di quella che è chiamata la «Venezia di sabbia». Come in Iraq dove si sono accaniti anche contro le mura di Ninive, hanno sfasciato le statue perché opere profane. «Sappiamo già che ci sono state delle distruzioni — avverte Irina Bokova, la direttrice dell’Unesco da Parigi —, sono crollate delle colonne dopo un bombardamento». Che sarebbe stato un tentativo del regime di fermare con i caccia l’avanzata dello Stato Islamico. «Siamo molto preoccupati — continua Bokova — perché abbiamo già assistito al saccheggio del museo di Mosul in Iraq. Le operazioni a Palmira devono essere fermate, i siti patrimonio culturale dell’umanità non possono diventare campi militari. La comunità internazionale deve intervenire».
Con la conquista della città, gli uomini del Califfo controllano il 50 per cento della Siria, anche se per la maggior parte si tratta di zone desertiche.
Come a Raqqa, già sotto il loro dominio, anche tra le rocce attorno a Palmira sono disseminati giacimenti di gas e petrolio. Un’altra fonte di finanziamento per gli estremisti, che sponsorizzano il terrore soprattutto con le estorsioni e le tasse richieste ai siriani o agli iracheni delle regioni conquistate. In una settimana le milizie in nero hanno preso il controllo di due città che portano verso le capitali dei Paesi sotto attacco: Ramadi, centro della provincia irachena di Anbar, è a meno di 150 chilometri da Bagdad; a Palmira passa l’autostrada che porta a Damasco, la fortezza del clan di Assad.
Il regime ha cercato fin dalle prime manifestazioni pacifiche nel marzo del 2011 di creare una zona protetta per gli alauiti, la minoranza che da oltre quarant’anni spadroneggia in Siria. Da Palmira lo Stato Islamico potrebbe cercare di tagliare in due questo corridoio di sicurezza che unisce Damasco con il Mediterraneo e il porto di Latakia.
Nelle scorse settimane i comandanti di Hezbollah hanno concentrato l’offensiva in quest’area, sulle montagne al confine con il Libano. Il movimento sciita libanese e filo-iraniano è pronto a combattere contro i ribelli (sunniti come i miliziani dello Stato Islamico) «fino a quando sarà necessario», spiega all’agenzia Reuters lo sceicco Naim Qassem, numero due dell’organizzazione. «Non abbandoneremo mai Assad, non c’è soluzione senza di lui. Stiamo lottando perché altrimenti il Medio Oriente rischia la frammentazione».
Davide Frattini


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