by redazione | 28 Maggio 2015 10:27
Professoressa Chiara Saraceno, nel suo ultimo libro «Il lavoro non basta» (Feltrinelli) sostiene che la crisi ha colpito giovani, donne e minori. Per quale ragione?
In termini quantitativi sono loro i più deboli, ma ci sono anche i lavoratori anziani espulsi dal mercato del lavoro, assimilabili alla categoria dei «lavoratori poveri». I giovani non li prendono perché non hanno esperienza, gli anziani perché sono troppo vecchi. Questa situazione è causata a una questione generazionale, ma non bisogna trascurare l’esistenza delle differenze di classe e geografiche tra Nord e Sud.
Per l’Ocse una delle cause del fenomeno dei «Neet» è la mancata corrispondenza («mismatch») tra la scuola e l’impresa. È d’accordo?
Sarà anche vera l’esistenza del «mismatch», ma in Italia esiste un alto tasso di evasione scolastico e di abbandono nei primi anni della scuola media e superiore. Questa situazione è creata dalla difficoltà del nostro sistema di istruzione nel trattenere soprattutto i più vulnerabili, i ragazzi con meno motivazioni e meno sostegni di tipo culturali e sociali da parte delle famiglie, necessari per spingerli a frequentare le lezioni. Prima del mancato rapporto tra la scuola e l’impresa, bisogna affrontare il problema della formazione di base, della motivazione personale, della maturazione di un interesse ad avere una formazione di qualche genere. Questioni che non mi sembrano siano affrontate nella riforma della scuola.
Le più penalizzate tra i Neet sono le donne. La crisi ha peggiorato uno dei problemi principali del mercato del lavoro?
Siamo tra i paesi con più Neet tra le donne già da qualche anno. E questo avviene soprattutto nel mezzogiorno. Vorrei però ricordare che viviamo in un contesto dove le donne studiano più degli uomini. Per loro la formazione conta di più per evitare di essere confinate in un mercato di basse qualifiche. Il dato italiano dimostra inoltre che si è ridotto il gap con gli uomini. Questo si spiega perché sono molto aumentati i Neet tra gli uomini, è uno degli effetti dello scoraggiamento nell’istruzione e nella ricerca del lavoro. Quei giovani uomini che un tempo trovavano un’occupazione, anche con qualifiche basse, oggi non trovano nemmeno lavori di questa tipologia. È un caso di uguaglianza al ribasso.
Una delle cause dell’esplosione della disoccupazione giovanile può essere addebitabile alle politiche del lavoro dell’ultimo quadriennio?
Queste politiche, in Italia come in Europa, si sono focalizzate sull’offerta del lavoro e non sulla domanda del lavoro. Ciò ha portato in Italia a concentrarsi sulla riforma delle tipologie contrattuali e non ad investire nei processi formativi, nell’accompagnamento e nell’integrazione delle persone che sono più fragili. È stata una politica dell’offerta miope quella che ha lavorato esclusivamente sulla licenziabilità e non su quello che si definisce «capitale umano» dove si è investito pochissimo.
Per un periodo si è pensato che la soluzione per i Neet fosse la «Garanzia giovani». Ha funzionato?
I giovani si sono iscritti di più nel Sud, come è ovvio che sia. Se guardiamo i dati la maggioranza ha alti livelli di istruzione e di qualifica professionale. Questo significa che non c’è stata un’azione di coinvolgimento dei ragazzi che avrebbero dovuto essere oggetto di queste politiche dato che non hanno risorse e conoscenza. Del resto, se per iscriversi a garanzia giovani c’è bisogno di compilare un modulo online significa complicare l’accesso. Poi ci si sono messe le lunghe attese per i colloqui e la difficoltà di avere concrete offerte di lavoro. Tutto questo crea ulteriore scoraggiamento tra gli iscritti.
Il Jobs act risolverà questi problemi?
Al di là del fatto che il contratto a tutele crescenti è un’altra forma di precarietà e che vedremo cosa accadrà quando finiranno gli incentivi, si continua a dire che il mercato del lavoro è troppo rigido, protetto, mentre è vero il contrario. Ripeto, il problema non è l’offerta, ma la domanda. Le imprese non sono competitive, già prima della crisi si erano adagiate sull’impiego di lavoro poco qualificato. Oggi chi ha retto di più ha nel frattempo innovato, orientandosi sulle esportazioni. Se non si aumenta la domanda di lavoro in modo sostanzioso potremo continuare a flessibilizzare i contratti, ma non ci sarà aumento di lavoro. Ci sarà solo il passaggio da un contratto all’altro.
Il reddito minimo garantito può essere una soluzione?
Certo. In una situazione in cui non c’è abbastanza lavoro per chi lo vorrebbe, non si può continuare ad aspettare che il lavoro arrivi. Nell’attesa le persone devono vivere e le occupazioni che trovano non garantiscono un reddito sufficiente. Oggi bisogna capire che non tutti sono sempre in condizione di lavorare per il mercato. In alcuni momenti della vita i carichi familiari, le disabilità psicofisiche o altri eventi possono rendere difficile la ricerca. In altri paesi questo lo hanno imparato, da noi invece no e si continua a sostenere che il reddito non è realizzabile. Salvo poi mettere in piedi finti meccanismi di protezione del lavoro come la cassa integrazione in deroga.
Ci sarà mai un reddito minimo in Italia?
Me ne occupo da 36 anni, oggi sono in molti a parlarne. Ogni momento è quello buono
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