LONDRA Si deve ricorrere all’immagine di cui si è tanto abusato per descrivere bene ciò che è accaduto nella notte fra giovedì e venerdì: la grande rottamazione del grande rottamatore, David Cameron. E bisogna ritornare indietro ai tempi di Margaret Thatcher e di Tony Blair per ritrovare due leader che avevano ribaltato gli scenari elettorali in modo così radicale. Ma entrambi, Margaret Thatcher e Tony Blair, non avevano avuto attorno che un solo avversario con cui fare i conti, rispettivamente i laburisti o i conservatori.
Invece, David Cameron, proprio lui, l’ex bullo delle goliardate all’università di Oxford, conquistando l’imprevista maggioranza assoluta di seggi (331) alla Camera dei Comuni, trionfo che i tory non registravano dal 1992 (l’ultimo fu John Mayor), di avversari ne ha sbaragliati in un colpo solo quattro. Ha costretto alle dimissioni e alla pensione anticipata il laburista Ed Miliband, il liberaldemocratico Nick Clegg, il populista Nigel Farage. E, occorre aggiungere, ha congelato le vanità del sindaco di Londra, Boris Johnson (eletto in Parlamento) il quale in cuor suo non aspettava altro che il tonfo del primo ministro per scalare il partito.
Un po’, David Cameron è stato aiutato dai paradossi del sistema elettorale (per esempio lo Ukip ha preso 3 milioni e mezzo di voti, 13 per cento, e solo un parlamentare) ma è stato efficace nella campagna elettorale e può ora formare l’esecutivo (confermati il ministro degli Esteri Philip Hammond, dell’Interno Theresa May e George Osborne cancelliere dello Scacchiere), avendo già incontrato la regina e avendone ricevuto il mandato.
Non ha vinto. Ha stravinto. E, celebrando l’incoronazione politica davanti a Downing Street e con il ringraziamento signorile ai perdenti Ed Miliband «che mi ha generosamente chiamato» e Nick Clegg ex alleato, ha il legittimo diritto di annunciare le sue priorità immediate. Che sono: guidare «nell’interesse di tutto il popolo il governo di un solo Regno Unito e di una sola nazione», ricostruire un «Regno Unito ancora più grande», riconciliando il Nord col Sud (con una legge sulla devoluzione di poteri alla Scozia), convocare nel 2017 il referendum sull’Europa (un progetto di legge sarà presentato subito ai Comuni), riformare il welfare in modo che vi siano sbarramenti tali da dissuadere l’immigrazione, proseguire lungo la rotta delle misure che conciliano austerità e crescita, tagli alla spese oggi e riduzioni di imposte domani (entro il 2020). Ha campo aperto e nessun ostacolo.
Se Margaret Thatcher era stata battezzata (dai sovietici allora) come la «Iron Lady», la Lady di Ferro, David Cameron meriterebbe il titolo di «Iron Man», visto che ha asfaltato le opposizioni e i vecchi amici di coalizione, i liberaldemocratici che avevano 57 parlamentari e se ne ritrovano 8. Il bottino pieno l’ha costruito consegnando un messaggio semplice e solido, con iniezioni di slogan populisti su temi sensibili (Europa e immigrazione), soprattutto stimolando ottimismo per la ripresa economica.
«È l’economia, stupidi» disse Bill Clinton per convincere gli americani nel 1992. E quel richiamo del candidato democratico, in queste settimane, è certamente ritornato alla memoria di David Cameron che ha puntato la sua scommessa sulla necessità di stabilizzare il risanamento dei conti pubblici e di completare la riforma dei sussidi sociali, troppo generosi, un pozzo a cui attinge un esercito di furbi. Gli ha creduto l’elettore moderato, il «conservatore timido e silenzioso», che fino all’ultimo è rimasto indeciso, rifiutando di esprimersi nei sondaggi e facendoli così sballare.
Il Grande Rottamatore ha avuto anche la felice intuizione di tenersi fuori dalla Scozia, l’ha data elettoralmente per persa sin dall’inizio e ha lasciato che l’onda dello Scottish National Party investisse i laburisti. Cosa loro. Adesso però dovrà prestare molta attenzione. I separatisti (56 parlamentari) sono una mina vagante. David Cameron si è attrezzato: ha già parlato con Nicola Sturgeon, leader degli indipendentisti. Meglio portarsi avanti.
Fabio Cavalera