by redazione | 28 Aprile 2015 13:00
Prima, c’è la legge: e articoli, titoli, trionfi per l’Italia che mette in pratica la Convenzione europea sulla lotta alla violenza contro le donne e finalmente impone una serie di norme e finanziamenti per contrastare gli abusi, subiti secondo i sondaggi da quasi un’italiana su tre. È l’agosto del 2014.
Poi, c’è il silenzio. Le regioni sono chiamate a decidere come, dove e quando spendere i 16,5 milioni di euro che il governo ha stanziato per il biennio 2013-2014, aggiungendone altri nove per arrivare da qui al 2017. Le risposte dovrebbero essere contenute in delibere e decisioni che troppo spesso vengono chiuse al controllo dei cittadini.
È quanto racconta un progetto avviato da Actionaid – “Donne che contano”[1] – attraverso il quale l’organizzazione per si è data l’obiettivo di non lasciar passare e di andare a chiedere, controllare, verificare, cosa stia facendo ogni regione con i fondi nazionali contro la violenza che ha ricevuto da Roma.
Il risultato è stato innanzitutto un muro, un muro di non-trasparenza, rappresentato in un indice da 0 a 11 nella mappa qui sopra. Solo 12 amministrazioni su 21 infatti hanno pubblicato online i documenti che provano le scelte compiute. Solo altre tre hanno risposto poi nel merito alle richieste ufficiali dei ricercatori.
Regioni come Sicilia, Calabria, Molise, Friuli Venezia Giulia, e le nordicissime province autonome di Trento e Bolzano non hanno dato alcuna informazione sui fondi. Nonostante si parli di risorse ingenti – a Palermo il governo ha affidato quasi due milioni di Euro – ma soprattutto di un problema importante come quello degli abusi in famiglia.
Al contrario ci sono luoghi come Toscana, Emilia Romagna e Sardegna dove i governi locali hanno garantito l’accesso alle decisioni compiute. La Sardegna è l’unica però che è arrivata a sposare la massima trasparenza, quella che chiederebbe a tutti Actionaid, ovvero la pubblicazione dell’elenco completo delle strutture che ricevono aiuti, e il complesso dei finanziamenti ricevuti da ciascuna.
Superato lo scoglio delle delibere, c’è poi l’incertezza sul “come” sia applicata la legge. Ogni amministrazione infatti sta seguendo scelte diverse, non sempre allineate con le richieste del governo: chi abbassa gli standard richiesti, chi dà i soldi a province e comuni anziché direttamente alle associazioni, chi stabilisce nuovi bandi a cui partecipare.
I centri antiviolenza esistenti, poi, avevano avviato un’ampia campagna di protesta contro il piano governativo, accusato di essere troppo generoso per l’apertura di nuove strutture e troppo poco sul sostegno di quelle attuali, che avrebbero dovuto ricevere risorse minime, dai 5 ai 7mila euro ciascuna.
La Toscana così ha deciso di raddoppiare la quota riconosciuta alle strutture presenti. Nuoro l’ha dedicato tutto, il fondo, alle istituzioni già attive. E il Lazio ha aumentato la quota fino a 30mila euro per i centri antiviolenza, legando invece le risorse per le case rifugio al numero di posti letto.
Tutti questi sono esempi di strade diverse dietro una legge comune, caotiche forse ma almeno raccontabili. Perché il problema, insiste ActionAid, è soprattutto in quelle regioni per le quali è impossibile conoscere le decisioni in atto. L’invito è soprattutto alle amministrazioni vicine alle urne – Liguria, Umbria, Puglia e Calabria, perché prendano sul serio la pubblicazione dei dati. Perché “contano”. Per il contrasto agli abusi.
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