Insomma, ciò che gli italiani discutono inutilmente da decenni, all’impasse per i veti delle divise di cui la destra si fa portavoce ma che riescono ad imbalsamare anche il Pd, incapace di procedere sulla strada segnata dalla stessa Costituzione italiana, dalla Convenzione di Ginevra del 1949 e da una lunga serie di patti internazionali fino alla Convenzione Onu ratificata dal nostro Paese nel 1988 ma mai attuata, appare invece chiaro ai giudici europei. Il collegio presieduto da Päivi Hirvelä infatti scrive che il diritto penale italiano ha dimostrato di essere «inadeguato» non solo perché non prevede alcuna sanzione contro i pubblici ufficiali che abusando dei propri poteri compiono atti di «tortura» o anche solo «azioni disumane e degradanti», ma anche perché è «privo di disincentivi in grado di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte della polizia».
Già un anno fa la Corte europea, condannando l’Italia a risarcire un uomo picchiato dai carabinieri, aveva bacchettato anche la magistratura troppo spesso inerte davanti simili fatti.
E sebbene qualcosa si sia mosso, negli ultimi anni, da quando alcuni tribunali hanno sottolineato l’impossibilità di procedere alla condanna delle forze dell’ordine colpevoli di violenza per mancanza di leggi appropriate (G8 di Genova e caso Cucchi, primi tra tutti), il reato di tortura e il codice identificativo per gli agenti di polizia non sono ancora strumenti a disposizione.
Alla Camera però è calendarizzata già per domani la discussione iniziata il 23 marzo scorso sul ddl tortura, il cui testo è stato licenziato dal Senato nel marzo 2014 e modificato dalla commissione Giustizia al fine di armonizzarlo maggiormente — ma non del tutto — alle convenzioni internazionali. «Abbiamo innanzitutto raddoppiato i tempi di prescrizione che ora arrivano fino a 24 anni — spiega la presidente della commissione Donatella Ferranti (Pd) — e abbiamo cercato di tipizzare meglio la fattispecie di reato, soprattutto nel caso di pubblico ufficiale che abusa dei propri poteri, specificando le finalità della condotta volta ad ottenere informazioni, a vincere una resistenza, per punizione o per discriminazione».
Ma la prima e più importante “pecca” del testo, che dopo l’approvazione della Camera dovrà comunque tornare in seconda lettura al Senato, sta nel fatto che la tortura non è qualificata come reato proprio ma comune, quindi imputabile a qualunque cittadino e non solo alle forze dell’ordine, come avviene in molti Paesi occidentali. «È stata una scelta politica — ammette Ferranti — ma non cambia nulla perché nel caso di reato commesso da pubblico ufficiale è prevista un’aggravante con pena autonoma, come se fosse un reato specifico. Abbiamo scelto di non stravolgere ulteriormente il testo del Senato, dove comunque si è svolto un alto dibattito per più di un anno, in modo da velocizzare l’approvazione finale. Ora mi auguro che la Camera approvi all’unanimità il provvedimento, in modo da poter avere la legge definitiva entro l’estate».
Il nuovo testo modificato dalla commissione Giustizia punisce con la reclusione da 4 a 10 anni «chiunque, con violenza o minaccia o violando i propri obblighi di protezione cura o assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata o sottoposta alla sua autorità sofferenze fisiche o psichiche». La pena è aggravata da 5 a 12 anni quando a torturare è un incaricato di pubblico servizio, il quale può essere accusato anche di un nuovo reato, l’istigazione specifica, punito con il carcere fino a 3 anni anche se l’istigazione non è stata accolta e la tortura infine non c’è stata.
Per i codici alfanumerici sulle divise invece c’è da aspettare di più, perché il governo ha di fatto bloccato i lavori in commissione Affari costituzionali del Senato sul testo presentato da Sel e che avrebbe dovuto arrivare in Aula la scorsa settimana, annunciando provvedimenti in questo senso in un prossimo ddl sulla sicurezza urbana. «L’accordo con il ministro Alfano è che la commissione analizzerà contemporaneamente i due ddl — spiega la senatrice di Sel Loredana De Petris — Ma aspetteremo ancora quindici giorni, poi, se il ddl governativo non arriverà, faremo pressioni per riprendere i lavori sul nostro testo e introdurre i codici con i quali a Genova si sarebbero potuti identificare i torturatori».