Terni e Ilva, c’era una volta l’acciaio italiano

Terni e Ilva, c’era una volta l’acciaio italiano

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Dopo la crisi l’industria ita­liana ha perso circa il 25% del suo livello di pro­du­zione, men­tre gli ultimi dati mostrano che anche il 2015 parte male. Il set­tore side­rur­gico appare come uno di quelli che ha più con­tri­buito al risul­tato; tutti i cen­tri pro­dut­tivi pre­sen­tano dei pro­blemi rile­vanti, dall’Ilva, alle Accia­ie­rie di Piom­bino, a quelle di Terni, agli impianti bre­sciani. Il rischio ora è che quanto resta dell’eredità di un pas­sato glo­rioso vada quasi tutto a finire nelle mani di azio­ni­sti esteri.

Il set­tore è sog­getto da tempo a grandi tra­sfor­ma­zioni: la pro­du­zione a livello mon­diale ha con­ti­nuato a cre­scere sino ad oggi, pas­sando dagli 800 milioni di ton­nel­late del 2000 ai circa 1650 milioni del 2014, ma que­sto gra­zie ai paesi emer­genti, con la Cina che ormai pro­duce circa il 50% del totale, men­tre nei paesi svi­lup­pati l’output tende a sta­gnare. C’è poi nel com­parto una grande capa­cità pro­dut­tiva inu­ti­liz­zata, men­tre si veri­fi­cano tur­bo­lenze con­ti­nue sia sui prezzi delle mate­rie prime che su quelli dei pro­dotti finiti, in un qua­dro di forte inter­na­zio­na­liz­za­zione del busi­ness. Un mer­cato difficile.

Ma le dif­fi­coltà nazio­nali non sono solo legate alla crisi e ai muta­menti del qua­dro mondiale.

Va in effetti ricor­data la scia­gu­rata poli­tica di pri­va­tiz­za­zioni por­tata avanti dai governi di cen­tro­si­ni­stra negli anni novanta. Il set­tore side­rur­gico dell’Iri è stato fatto a pezzi e riven­duto a valori di rea­lizzo, con risul­tati finali cata­stro­fici. L’impianto di Terni, all’avanguardia tec­no­lo­gica nel set­tore dell’ acciaio inos­si­da­bile, veniva ceduto nel 1994 ad una cor­data di impren­di­tori nazio­nali e della Thys­sen Krupp; suc­ces­si­va­mente quest’ultima pren­derà il con­trollo, ma per ragioni di stra­te­gie azien­dali ven­derà poi alla fin­lan­dese Outo­kumpu, che, a causa del veto da parte dell’antitrust euro­peo, sarà costretta a cedere di nuovo l’impianto ai tede­schi, che lo faranno molto di con­tro­vo­glia. Ora ci tro­viamo in una fase di discus­sioni con­fuse con la società per tor­nare ad una con­di­zione di fun­zio­na­mento nor­male. Una cosa simile acca­drà con le Accia­ie­rie di Piom­bino, che erano intanto state nel 1992 cedute a Luc­chini; costui ven­derà poi nel 2005 ai russi di Sever­stal, che qual­che anno dopo però si riti­re­ranno. Seguirà, a par­tire dal dicem­bre 2012, una fase di com­mis­sa­ria­mento, men­tre negli ultimi mesi si è final­mente mani­fe­stata la volontà di un gruppo alge­rino di rilan­ciare l’impianto, anche se i con­torni pre­cisi del rela­tivo piano sono ancora sog­getti a incertezze.

Il capo­la­voro delle pri­va­tiz­za­zioni si ha con la ces­sione per pochi soldi dell’Ilva alla fami­glia Riva nel 1995; essa otterrà dall’impianto grandi pro­fitti che, per una larga parte, a detta dei magi­strati inqui­renti, pren­de­ranno la via dei para­disi fiscali. Come è noto, c’è ora una qual­che ipo­tesi di solu­zione dei pro­blemi dell’azienda, su cui ci intrat­te­niamo più avanti.
Biso­gna anche ricor­dare tra le ragioni delle dif­fi­coltà del set­tore la poli­tica più recente dei governi, senza idee, appros­si­mata, che inter­viene solo all’ultimo minuto; va anche sot­to­li­neata la man­canza di visione e la cat­tiva gestione dei capi­ta­li­sti nazio­nali, che da un certo punto in poi è diven­tata una fuga disordinata.

Da quando è scop­piata la crisi dell’Ilva sono pas­sati circa tre anni, ma siamo sostan­zial­mente ancora al punto zero ed un tempo pre­zioso è andato per­duto. Intanto appare incre­di­bile che sono dovuti pas­sare diversi decenni prima che qual­cuno si accor­gesse dell’enormità della situa­zione ambien­tale di Taranto; ma ancora oggi il governo Renzi spo­sta appa­ren­te­mente molto in là la solu­zione della que­stione. Peral­tro i pro­blemi dell’Ilva non sono non solo quelli dell’inquinamento, ma anche quelli di mer­cato, finan­ziari, orga­niz­za­tivi, che nes­suna forza pura­mente nazio­nale appare oggi in grado di risol­vere inte­ra­mente. Una pos­si­bile solu­zione strut­tu­rale vede così da una parte il capi­tale pub­blico impe­gnarsi non solo tem­po­ra­nea­mente, come vor­rebbe il governo, ma a lungo ter­mine, nell’azionariato del gruppo per sal­va­guar­dare gli inte­ressi del nostro paese; dall’altra sem­bra neces­sa­ria la pre­senza nel capi­tale anche di un grande gruppo estero che apporti quelle risorse che a noi man­cano. L’ipotesi attual­mente sul tap­peto di affi­darsi all’indiana Arce­lor­Mit­tal non appare delle più felici. L’azienda sem­bra inte­res­sata all’Ilva più per esclu­derne i con­cor­renti che per altro, avendo già una capa­cità pro­dut­tiva in eccesso in Europa; l’impianto sarebbe così pro­ba­bil­mente ridi­men­sio­nato. Del resto la società pre­senta un modello gene­rale di gestione volto a spre­mere al mas­simo gli impianti, tenendo bassi gli inve­sti­menti e mas­si­miz­zando i divi­dendi a breve ter­mine per gli azio­ni­sti. Una scelta che sarebbe dun­que poten­zial­mente dan­nosa. Ma restano i coreani, i cinesi, i brasiliani…



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