Quel raid una notte d’inverno L’errore dell’intelligence Usa
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Alla precisa domanda se lui e Matteo Renzi avessero discusso dei droni americani per la Libia, venerdì scorso alla Casa Bianca, Barack Obama ha risposto secco, ma abbassando gli occhi: «No, non ne abbiamo parlato». Risposta tecnicamente corretta, ma forse non completa. È probabile infatti che una discussione sui Reaper (mietitori) ci fosse stata, ma di tutt’altra natura. Fonti americane suggeriscono che già in quell’occasione Obama potrebbe avere informato il premier del tragico errore, ufficialmente commesso in gennaio, quando un drone della Cia ha colpito un «importante obiettivo» jihadista, causando però allo stesso tempo la morte dei due ostaggi, Lo Porto e Weinstein.
Il dettaglio è interessante, ma non decisivo. Semmai testimonia dell’imbarazzo americano e della necessità di procedere per gradi, scusandosi in privato con gli alleati italiani, prima di rendere pubblica la drammatica notizia. Altra storia, ancora tutta da chiarire, è da quando l’Amministrazione americana abbia avuto certezza dei terribili effetti collaterali del raid.
La caccia al bersaglio di un drone è un lavoro lento, paziente, che però non assicura mai il successo al 100 per 100. Può partire dalla dritta di un informatore sul terreno, che segnala una presenza interessante e fa scattare una ricerca che può andare avanti per settimane. I «mietitori» cercano l’obiettivo e, se lo trovano, iniziano a pedinarlo, registrano ore e ore di immagini, ricostruiscono la rete sociale del target, a volte senza neppure saperne il nome.
È successo proprio questo con il terrorista del raid. L’intelligence Usa lo ha più tardi identificato come Ahmed Farouq, numero due di Al Qaeda per il subcontinente indiano. Ma all’inizio i servizi segreti americani avevano solo la vaga indicazione della fonte: un personaggio da tenere sotto osservazione. Così i droni lo hanno seguito, hanno individuato il suo compound, probabilmente nella regione di Datta Khel, nel Waziristan settentrionale. Hanno fotografato l’area, il villaggio, la presenza di civili nelle vicinanze. Poi gli analisti della Cia, lontani migliaia di chilometri, nei loro centri in Germania, in Gran Bretagna, negli Usa hanno riesaminato ore e ore di video, vagliato ogni indizio, fino a convincersi che dentro la palazzina ci fosse un qaedista e a chiedere a Washington il via all’operazione. Ma i sofisticatissimi sensori dei Predator non possono vedere tutto. La versione ufficiale ribadisce che gli occhi elettronici non hanno mai scorto la presenza di due ostaggi. Unica certezza: i missili Hellfire hanno incenerito il compound, un pericoloso capo terrorista è stato eliminato. Nessuno, nei comandi americani, è sembrato rendersi conto di cosa fosse veramente accaduto. Tanto più che a fine gennaio, la jihad aveva dato la sua conferma, annunciando il martirio di Farouk e di Qari Imran.
È stato solo a febbraio che l’intelligence ha riferito di voci nell’area tribale, secondo cui due occidentali prigionieri dei talebani erano morti in un raid, che aveva anche devastato il vicino rifugio di un comandante uzbeko, alleato dei talebani cosiddetti «buoni» cioè non coinvolti negli scontri con il Pakistan. Ma nessuno collegava ancora la voce a Lo Porto e Weinstein. La Cia in quel momento non aveva risposte ai rumors. Poteva essersi trattato di un’altra operazione, lanciata dai pachistani. Forse i due cooperanti erano rimasti vittime del secondo attacco. Il sospetto che si trattasse proprio del raid americano era diventato certezza soltanto parecchie settimane dopo, una volta completata l’attenta valutazione degli attacchi, sempre grazie all’incrocio tra informazioni dal terreno e nuove immagini dei droni, alfa e omega di ogni operazione a distanza: oltre al terrorista e ai suoi complici, il «mietitore» si era portato via anche due innocenti.
Una coincidenza strana: il 25 marzo, il Washington Post ha riportato che il capo del Centro per l’Antiterrorismo della Cia, conosciuto solo col nome di Roger, era stato improvvisamente esautorato e sostituito. Era considerato il vero architetto della lotta ad Al Qaeda con l’uso dei droni, braccio operativo del capo della centrale di Langley, John Brennan. Ha forse pagato per l’errore?
Quando però esattamente la Casa Bianca abbia ricevuto la conferma che si trattasse di Lo Porto e Weinstein non è chiaro. Chi ha recuperato dai corpi il campione per l’analisi biologica, che ci dicono le fonti ha permesso alla Cia di stabilire la loro identità? Certo non le squadre speciali, visto che l’area tribale è impenetrabile. Forse un agente locale, mandato sul posto. E questo spiegherebbe plausibilmente la lunghezza dei tempi.
In quale momento e come il povero cooperante siciliano fosse finito nelle mani del gruppo terrorista che ha segnato il suo destino, probabilmente non lo sapremo mai. Bernd Mühlenbeck, il collega tedesco rapito insieme a lui il 19 gennaio 2012 e liberato nel dicembre scorso, ha raccontato che Lo Porto da più di un anno non era più con lui. Ceduto ad altri jihadisti, forse più di una volta, trasportato in zone off limits, è stato impossibile non tanto seguirne, ma anche fiutarne con costanza le tracce per l’Unità di crisi della Farnesina, che ha coordinato il lavoro sul campo della nostra intelligence e dei diplomatici italiani impegnati nella regione. Spesso ci si è anche avvalsi dell’aiuto di altri servizi presenti nell’area, compresi quelli attivi al fianco dell’Isaf in Afghanistan.
Eppure un’ombra di trattativa, anche se a sprazzi e con tante zone oscure, c’è stata. Contatti ritenuti credibili in un mondo pieno di ciarlatani e doppiogiochisti, sono stati a volte creati. Numerose esche sono state lanciate. Perfino indizi che Lo Porto fosse ancora in vita sono stati ottenuti. Ma in oltre tre anni ci sono state anche lunghissime interruzioni, spesso causate dall’estrema cautela con cui i terroristi si muovono nelle aree grigie, quelle instabili, sorvegliate dal cielo e a rischio droni. Sono terre di confine, dove la vita ha scarsissimo valore, non esiste alcuna autorità che non sia quella tribale e i jihadisti che vi trovano rifugio, tanto più se hanno con sé degli ostaggi, cercano di esporsi il meno possibile. L’ultimo contatto credibile delle autorità italiane con qualcuno che aveva un collegamento con i rapitori di Lo Porto risale all’autunno scorso, novembre probabilmente. Poi il buio, il silenzio più duro di un macigno, il lento scemare di ogni speranza. Fino all’annuncio drammatico della Casa Bianca. La lotta al terrorismo islamico deve anche pagare prezzi dolorosi.
La caccia al bersaglio di un drone è un lavoro lento, paziente, che però non assicura mai il successo al 100 per 100. Può partire dalla dritta di un informatore sul terreno, che segnala una presenza interessante e fa scattare una ricerca che può andare avanti per settimane. I «mietitori» cercano l’obiettivo e, se lo trovano, iniziano a pedinarlo, registrano ore e ore di immagini, ricostruiscono la rete sociale del target, a volte senza neppure saperne il nome.
È successo proprio questo con il terrorista del raid. L’intelligence Usa lo ha più tardi identificato come Ahmed Farouq, numero due di Al Qaeda per il subcontinente indiano. Ma all’inizio i servizi segreti americani avevano solo la vaga indicazione della fonte: un personaggio da tenere sotto osservazione. Così i droni lo hanno seguito, hanno individuato il suo compound, probabilmente nella regione di Datta Khel, nel Waziristan settentrionale. Hanno fotografato l’area, il villaggio, la presenza di civili nelle vicinanze. Poi gli analisti della Cia, lontani migliaia di chilometri, nei loro centri in Germania, in Gran Bretagna, negli Usa hanno riesaminato ore e ore di video, vagliato ogni indizio, fino a convincersi che dentro la palazzina ci fosse un qaedista e a chiedere a Washington il via all’operazione. Ma i sofisticatissimi sensori dei Predator non possono vedere tutto. La versione ufficiale ribadisce che gli occhi elettronici non hanno mai scorto la presenza di due ostaggi. Unica certezza: i missili Hellfire hanno incenerito il compound, un pericoloso capo terrorista è stato eliminato. Nessuno, nei comandi americani, è sembrato rendersi conto di cosa fosse veramente accaduto. Tanto più che a fine gennaio, la jihad aveva dato la sua conferma, annunciando il martirio di Farouk e di Qari Imran.
È stato solo a febbraio che l’intelligence ha riferito di voci nell’area tribale, secondo cui due occidentali prigionieri dei talebani erano morti in un raid, che aveva anche devastato il vicino rifugio di un comandante uzbeko, alleato dei talebani cosiddetti «buoni» cioè non coinvolti negli scontri con il Pakistan. Ma nessuno collegava ancora la voce a Lo Porto e Weinstein. La Cia in quel momento non aveva risposte ai rumors. Poteva essersi trattato di un’altra operazione, lanciata dai pachistani. Forse i due cooperanti erano rimasti vittime del secondo attacco. Il sospetto che si trattasse proprio del raid americano era diventato certezza soltanto parecchie settimane dopo, una volta completata l’attenta valutazione degli attacchi, sempre grazie all’incrocio tra informazioni dal terreno e nuove immagini dei droni, alfa e omega di ogni operazione a distanza: oltre al terrorista e ai suoi complici, il «mietitore» si era portato via anche due innocenti.
Una coincidenza strana: il 25 marzo, il Washington Post ha riportato che il capo del Centro per l’Antiterrorismo della Cia, conosciuto solo col nome di Roger, era stato improvvisamente esautorato e sostituito. Era considerato il vero architetto della lotta ad Al Qaeda con l’uso dei droni, braccio operativo del capo della centrale di Langley, John Brennan. Ha forse pagato per l’errore?
Quando però esattamente la Casa Bianca abbia ricevuto la conferma che si trattasse di Lo Porto e Weinstein non è chiaro. Chi ha recuperato dai corpi il campione per l’analisi biologica, che ci dicono le fonti ha permesso alla Cia di stabilire la loro identità? Certo non le squadre speciali, visto che l’area tribale è impenetrabile. Forse un agente locale, mandato sul posto. E questo spiegherebbe plausibilmente la lunghezza dei tempi.
In quale momento e come il povero cooperante siciliano fosse finito nelle mani del gruppo terrorista che ha segnato il suo destino, probabilmente non lo sapremo mai. Bernd Mühlenbeck, il collega tedesco rapito insieme a lui il 19 gennaio 2012 e liberato nel dicembre scorso, ha raccontato che Lo Porto da più di un anno non era più con lui. Ceduto ad altri jihadisti, forse più di una volta, trasportato in zone off limits, è stato impossibile non tanto seguirne, ma anche fiutarne con costanza le tracce per l’Unità di crisi della Farnesina, che ha coordinato il lavoro sul campo della nostra intelligence e dei diplomatici italiani impegnati nella regione. Spesso ci si è anche avvalsi dell’aiuto di altri servizi presenti nell’area, compresi quelli attivi al fianco dell’Isaf in Afghanistan.
Eppure un’ombra di trattativa, anche se a sprazzi e con tante zone oscure, c’è stata. Contatti ritenuti credibili in un mondo pieno di ciarlatani e doppiogiochisti, sono stati a volte creati. Numerose esche sono state lanciate. Perfino indizi che Lo Porto fosse ancora in vita sono stati ottenuti. Ma in oltre tre anni ci sono state anche lunghissime interruzioni, spesso causate dall’estrema cautela con cui i terroristi si muovono nelle aree grigie, quelle instabili, sorvegliate dal cielo e a rischio droni. Sono terre di confine, dove la vita ha scarsissimo valore, non esiste alcuna autorità che non sia quella tribale e i jihadisti che vi trovano rifugio, tanto più se hanno con sé degli ostaggi, cercano di esporsi il meno possibile. L’ultimo contatto credibile delle autorità italiane con qualcuno che aveva un collegamento con i rapitori di Lo Porto risale all’autunno scorso, novembre probabilmente. Poi il buio, il silenzio più duro di un macigno, il lento scemare di ogni speranza. Fino all’annuncio drammatico della Casa Bianca. La lotta al terrorismo islamico deve anche pagare prezzi dolorosi.
Guido Olimpio e Paolo Valentino
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