Ma la « Grexit » ora non è un tabù Fa più paura il contagio di Syriza
by redazione | 17 Aprile 2015 9:43
BERLINO Qualcosa sta succedendo, se il capo economista del Fondo monetario internazionale (Fmi), Olivier Blanchard, dice che l’uscita della Grecia dall’euro non sarebbe, per gli altri membri della moneta unica, «una navigazione tranquilla ma probabilmente potrebbe essere fatta». Tra il 2010 e il 2012, un’affermazione del genere avrebbe provocato onde incontrollabili sui mercati e la paura del contagio avrebbe terremotato i titoli pubblici dei Paesi considerati deboli, Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda. Oggi di Grexit — cioè di uscita di Atene dall’euro — si discute invece apertamente a Berlino, in Europa e intensamente a Washington, al margine degli incontri primaverili dell’Fmi. E nessuno si terrorizza.
È che fino a tre anni fa la Grecia era considerata tossica e contagiosa dal punto di vista finanziario. Oggi è considerata tossica e contagiosa dal punto di vista politico. Ma con una conseguenza opposta: allora, la convinzione era che la malattia si sarebbe diffusa se il Paese avesse abbandonato l’Unione monetaria, oggi si ritiene che si diffonderebbe se vi rimanesse nei termini in cui ci vuole restare il governo di sinistra radicale di Alexis Tsipras. Blanchard ritiene probabilmente che, negli scorsi tre anni, l’eurozona sia cambiata al punto di potere sopportare uno choc del genere, pur con i contraccolpi del caso.
Poco prima di lui, un’opinione simile l’hanno sostenuta, sempre dall’America, Warren Buffett — il cosiddetto «Saggio di Omaha» per la sua immensa abilità di investitore — e il finanziere George Soros. Per non dire degli economisti tedeschi, in testa Hans-Werner Sinn, che consigliano ad Atene di abbandonare l’euro per rimettersi in sesto.
Anche il politico più potente di Germania dopo Angela Merkel, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, non solo ha detto di non aspettarsi risultati nei negoziati tra governo ellenico e partner europei negli incontri previsti la settimana prossima: ha sostenuto che tutte le ipotesi riguardanti la Grecia sono già più o meno considerate dai mercati, che cioè anche le onde di una Grexit sarebbero gestibili.
Le stesse indiscrezioni del settimanale tedesco Die Zeit , secondo il quale il governo Merkel starebbe preparando un piano per cercare di gestire il caso ellenico anche se Atene facesse default sul pagamento di una rata di debito, sono il segno più di una presa d’atto della gravità della situazione che non di una soluzione stabile; o forse, addirittura, il posizionamento per evitare che Berlino venga accusata di non avere fatto il possibile per evitare la Grexit (che comunque Merkel tutt’ora non vuole e che dunque subirebbe).
Alcune dichiarazioni possono essere tattiche in vista del prossimo giro di negoziati tra ministri delle Finanze dell’eurozona: per il 24 aprile è programmata una riunione in teoria importante (ma forse no). Di base, però, in molti governi europei — quello tedesco ma anche quelli olandese, spagnolo, portoghese, irlandese, slovacco — sta crescendo la convinzione che fare concessioni significative al governo di sinistra di Atene sarebbe tossico, nel senso che non solo darebbe forza a movimenti simili in altri Paesi ma anche stravolgerebbe e minerebbe le basi politico-economiche sulle quali sono stati costruiti cinque anni di interventi per affrontare la crisi dell’eurozona. In più, sta affermandosi un’idea nuova, riassunta in una lettera del presidente dell’Istituto Bruno Leoni, Franco Debenedetti, al Financial Times due giorni fa: «Se avviene per ragioni di democrazia, non c’è motivo che l’uscita dall’euro della Grecia segni la fine dell’euro e dell’Europa. Si potrebbe persino sostenere il contrario, e cioè che il non accettare la scelta democratica di un Paese sia la fine di quello che l’Europa dichiara di essere».