La grande Persia non cessa di stupirci. Trasse in inganno perfino un noto filosofo. Michel Foucault, alla vigilia della loro presa del potere, dopo lunghi dialoghi con gli ayatollah, disse e scrisse che non avrebbero mai accettato di governare. Foucault fu sedotto, e in parte anche noi semplici cronisti, da chierici che parlavano di Spinoza e di Heidegger, ben inteso spesso per criticarli. Quegli stessi religiosi, oltre a compiere una rivoluzione a ritroso e a rifarsi ai principi coranici di circa un millennio e mezzo fa rivendicano da anni il diritto di avere la più avanzata e la più rischiosa tecnologia: quella nucleare.
Avendo seguito spesso da vicino alcuni grandi avvenimenti iraniani degli ultimi decenni, mi è capitato di avere sentimenti contraddittori. Non poteva non indignarmi la prima brutale fase della presa del potere di Khomeini. Ho al contrario ammirato la coraggiosa difesa del paese negli otto anni di guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, alla quale parteciparono anche gli esuli politici ritornati in patria. Mi ha incuriosito la società iraniana, in particolare quella di Teheran, quando si è dimostrata capace di vivere con un non tanto vago sarcasmo i lugubri, cupi momenti della dittatura religiosa. I sussulti democratici non potevano che esaltarmi. Al contrario ho trovato inaccettabile il linguaggio degli ayatollah che addirittura invocavano la distruzione di Israele.
Ci si può fidare degli ayatollah? Il mondo è diviso. Nella stessa America, diventata subito il “grande Satana” per la Teheran dei chierici, il Congresso, dove dominano i repubblicani, è in favore di più severe sanzioni all’Iran; mentre la Casa Bianca, democratica, è incline a un’intesa, sia pure con tutte le precauzioni. La diplomazia internazionale si è prodigata nel mandare avanti un negoziato in cui non mancavano e non mancano le trappole. Il mondo musulmano è in grande allarme. Quello sunnita, il più numeroso, teme che una volta riammesso nella società internazionale, con l’aureola di potenza nucleare (al momento pacifica), l’Iran possa usufruire di un sempre più forte prestigio. E’ già presente nelle aree più agitate del Medio Oriente. In Libano ha alleati molto dinamici: gli Hezbollah. A Damasco contribuisce a tenere in piedi il despota Bashar el As- sad. A Bagdad governano gli sciiti, fratelli nella religione ma non sempre come arabi. E sono le milizie sciite, spesso inquadrate da graduati iraniani, che costituiscono la fanteria (insieme ai curdi) sulla quale contano gli aerei della coalizione creata dagli americani, di cui fanno parte numerosi paesi occidentali e arabi. Tutti impegnati contro lo “Stato islamico”, in Iraq e in Siria, ma non disposti a combattere a terra.
L’Arabia Saudita partecipa alla coalizione aerea contro lo “Stato islamico”, e quindi usufruisce della fanteria sciita, ma al tempo stesso combatte gli sciiti che hanno preso il potere nel vicino Yemen. Non solo, insieme all’Egitto e agli altri paesi della Lega araba, ha appena deciso di creare una forza sunnita di quarantamila uomini chiaramente rivolta contro l’Iran sciita. In quanto a Israele togliere le sanzioni a Teheran non è un errore, ma un crimine. Per Netanyahu l’Iran costituisce la più immediata minaccia per lo Stato ebraico. In questo Israele è lo stretto, obiettivo alleato dell’Arabia Saudita. Per entrambi i paesi l’amica America compie un grave errore se vuole veramente recuperare gli ayatollah. Nel Medio Oriente in preda al caos: in cui i nemici diventano alleati e gli alleati nemici se si cambia campo di battaglia: l’Iran promosso a interlocutore della superpotenza suscita il panico.
Per chi è fedele al principio che la parola è più civile del fucile, e che un’intesa sia pure faticosa è più auspicabile di una guerra sia pure soltanto minacciata, la posizione di Barack Obama è condivisibile. Lo è senz’altro per noi. Il trionfo della diplomazia vale più di cento battaglie vinte. Ma la contabilità nucleare è un esercizio rischioso. Gli sbagli col tempo si pagano. Ed è facile sbagliare se gli interlocutori non si distinguono spesso per la chiarezza. Il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, è un enigma. Forse lo è anche per coloro che lo rappresentano al tavolo dei negoziati, con gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Francia, l’Inghilterra e la Germania.
Fin dall’inizio del difficile dialogo l’Iran ha chiesto l’arresto immediato delle sanzioni, che colpiscono la vendita del petrolio e le banche, ossia il commercio estero principale risorsa del paese. Gli occidentali hanno sempre insistito per ridurre le sanzioni a tappe, via via che venivano rispettati i termini dell’accordo. La durata di quest’ultimo era un altro vistoso ostacolo. Quindici anni dicevano gli americani, nove – dieci anni gli iraniani. Il numero delle centrifughe, grazie alle quali si arricchisce l’uranio, è da tempo un irrisolvibile rompicapo. Non sono sempre uguali, Alcune sono più rapide e possono accelerare l’eventuale realizzazione di una bomba atomica. Nove mesi invece di un anno? O ancor meno? La contabilità delle centrifughe è dunque essenziale: è strettamente legata alla credibilità degli iraniani che giurano da tempo di voler utilizzare le centrali nucleari soltanto per fare medicinali e non missili. Una soluzione sarebbe di mandare l’uranio arricchito iraniano, essenziale per le armi, in un paese terzo. Ad esempio la Russia. Ma i negoziatori dell’ayatollah Khamenei, successore di Khomeini non ci pensano neppure. Ai tempi della rivoluzione, trentacinque anni fa, si discuteva se nei caricatori dei fucili automatici della polizia incaricata di affrontare i manifestanti dovevano esserci più cartucce vere o di legno. Carter, allora presidente degli Stati Uniti, consigliava lo scià Reza Pahlevi di preferire le seconde, quelle di legno. E cosi Khomeini vinse. Forse avrebbe vinto lo stesso.