Lehman La banca che non doveva fallire

Lehman La banca che non doveva fallire

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MIRJA Cartia era appena rientrata dalla maternità e si accorse che molti dei suoi colleghi presentavano richieste per una sola autorizzazione: volevano comprare azioni della loro stessa società. La signora Cartia era avvocato di Lehman Brothers a Milano. Era l’inizio di settembre del 2008 e il valore del titolo, in picchiata da mesi sulla Borsa di New York, sembrava l’occasione del secolo. Che potesse fallire una banca d’affari di Wall Street restava fuori dal radar mentale dei dipendenti.
Venerdì 11 settembre, al pomeriggio, si riunirono per brindare al salvataggio che — si disse — era ormai imminente. Domenica 13 dopo pranzo furono richiamati in ufficio per comunicazioni. Ciò che sarebbe seguito ha cambiato la storia di una generazione: una bancarotta da 613 miliardi, un collasso dell’economia mondiale più grave che nel ‘29, venti milioni di disoccupati in Occidente, la crisi dell’euro, il Movimento 5 Stelle al 25% nel 2013 in Italia, la Grecia di Alexis Tsipras.
Da allora Mirja Cartia è rimasta a Lehman, e non solo con i suoi ricordi. Lavora con i curatori fallimentari di Pwc, l’ultimo rapporto dei quali contiene due informazioni che la interessano particolarmente. La prima è che fra tra tre o quattro mesi verrà chiusa (almeno in Europa) la liquidazione del più grande disastro finanziario della storia contemporanea, e sarà come dismettere un lutto. La seconda invece non è fatta per lenire i disordini da stress post-traumatico di chi visse quei giorni: Lehman Brothers non è fallita. O, più esattamente, forse non era un caso disperato come si ritenne quando il governo americano, la Federal Reserve, Jp Morgan Chase, Barclays, Morgan Stanley, Goldman Sachs e molti altri decisero che era tempo di staccarle la spina. Magari, amputata, la banca poteva vivere. O poteva essere spinta verso una lenta uscita di scena durante la quale alcune sue parti potevano rinascere sotto altre insegne.
I numeri della liquidazione, ora che è quasi ultimata, suggeriscono che Lehman non era insolvente. Lo assicurano per la parte europea, lo fanno sospettare per la parte americana. La sola certezza è che oggi Lehman sta rimborsando i suoi creditori con molto più denaro liquido di quanto si ritenesse concepibile la notte del 15 settembre 2008 in fu lasciata andare al suo destino. Quei dati sollevano domande difficili su ciò che significa per una, più banche o aziende — forse anche per un Paese — apparire insolvente, cioè finanziariamente morto, a un certo punto nel tempo. Sono domande fin troppo attuali su cosa sia dettato dalla realtà, cosa dalla percezione umana o dalle condizioni generali dell’economia globale in momenti diversi della storia.
A fine settembre 2008, al portafoglio di derivati di Lehman fu valutato a 12 centesimi sul dollaro: carta straccia, appena più di un decimo del suo valore teorico. Il più recente rapporto del liquidatore europeo di Lehman, Pwc, riferisce invece di aver «portato il dividendo a 100 pence sulla sterlina». Significa che sulle molte decine di miliardi di euro o dollari in attività e debiti legati a Lehman Brothers International Europe, gli indennizzi ai creditori sono stati (in media) integrali. In più è stato versato loro ogni anno un tasso d’interesse dell’8%, e dopo resterà ancora nei conti bancari del liquidatore un surplus di cassa fra 4,96 e 7,39 miliardi di sterline (fino a 10 miliardi di euro), di nuovo da spartire fra i creditori. È un caso che un addetto ai lavori definisce «più unico che raro nelle procedure fallimentari». In totale “Lehman Brothers International Europe in Administration”, il nome dell’entità oggi in mano a Pwc, è già sicura di ripagare 43,3 miliardi di sterline (59,6 miliardi di euro). Non esiste più, ma è tornata immacolata.
Non è mai un processo indolore. Dopo la guerra, gli abitanti di Dresda, bombardata al fosforo, raccolsero le pietre della cattedrale distrutta, le pulirono e numerarono una ad una, per poter ricostruire in futuro. I curatori fallimentari hanno fatto con Lehman qualcosa di simile eppure diverso: hanno raccolto i milioni di pezzi, nell’idea di pulirli, numerarli, ma poi venderli per ripagare i creditori. È un avanzamento passo dopo passo dopo la catastrofe. Lehman Brothers Holdings, la capogruppo americana oggi affidata allo studio newyorkese Alvarez and Marsal, ha per esempio venduto una catena di hotel presente da Assisi a Da Nang, nel Vietnam centrale; ha incassato 144 miliardi di dollari di dividendi dalla Formula Uno, di cui è azionista; ha ricevuto rimborsi per 176 milioni di dollari da un prestito a Endemol, la società che produce format tivù come «Il grande fratello » o «Che tempo che fa».
In Italia, questo lavoro fra le macerie è toccato a Mirja Cartia. All’inizio gli ex dipendenti la aspettavano sotto casa per sapere del loro bonus o della liquidazione, ma poteva anche andarle peggio. È stata questione di pochi giorni. Subito prima del fallimento, Lehman era pronta a passare all’azione entro poche ore ed eseguire quello che in segreto aveva battezzato “Project Palio”: comprare una quota estremamente rilevante del Monte dei Paschi di Siena, con opzioni a salire ancora di più nel capitale in un secondo tempo. Una banca che stava per fallire stava per comprare un’altra banca che di lì a poco sarebbe stata sull’orlo del fallimento. Dipanare la matassa a quel punto sarebbe diventato impossibile, la perdita molto più alta. Invece pian piano sono andate sul mercato a ottimi prezzi le quote in mano a Lehman della Sator di Matteo Arpe, del fondo semi-pubblico F2i o di partecipazioni immobiliari in Prelios, Aedes, Beni Stabili e Cordea Savills. Con quei proventi, creditori come Intesa Sanpaolo, Unicredit, Unipol o la stessa Mps sono stati rimborsati nel del tutto, ma per quote sostanziali. Si stima che la parte italiana di Lehman Europe oggi sia indennizzata all’85%.
Una prima occhiata agli Stati Uniti mostra che lì tutto è più difficile. La banca commissariata avrebbe attività nominalmente da circa 240 miliardi, ma ha tirato fuori denaro solo per 94 e stima ulteriori proventi per altri 13. In più ha aperti contenziosi per altre decine di miliardi di dollari, di cui uno per 15 miliardi su un pacchetto di derivati con Jp Morgan Chase. Dietro la contabilità c’è però il trauma di quello che un ex addetto Lehman di New York definisce «uno squalo che sanguinava nell’acqua e gli altri predatori volevano divorare». Poiché il Tesoro Usa e la Fed le rifiutavano un finanziamento-ponte, nelle settimane subito prima del fallimento la banca ha dovuto svendere titoli in bilancio per una quantità imprecisata di miliardi. La sola certezza è che, con l’America in ripresa, quelle posizioni un tempo di Lehman ora valgono molto di più. Ci sono poi i derivati della banca, un colossale libro da 39 mila miliardi di dollari di valore teorico: Alvarez and Marsal stima che il caos della morte traumatica dell’istituto abbia causato perdite da 50 miliardi, altri le ritengono da 80. Quel colosso di Wall Street ha commesso errori, fu accecato dalla sua arroganza e forse non meritava di vivere. Altrettanto certo è che la sua fine ha generato un’industria di avvocati e consulenti che stanno ancora banchettando sulla carcassa: fino a un paio di anni fa le parcelle dei liquidatori a New York erano di un miliardo l’anno, mille dollari l’ora, mentre la parte europea costa ancora mezzo miliardo di euro l’anno. L’industria delle pompe funebri non va mai in recessione, e chi non lo capisce perde occasioni preziose. Giorni dopo l’insolvenza del 2008, sotto shock, Mirja Cartia salì su un taxi a Milano. «Ma non mi paghi con i buoni della Lecman — la avvertì il conducente — Quelli non valgono più nulla».


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