IL NAUFRAGIO DELL’OCCIDENTE

by redazione | 21 Aprile 2015 9:09

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C’È TUTTA la sproporzione del mondo in cui viviamo, tutto il peso delle disuguaglianze che sopportiamo e pratichiamo, nella corsa di centinaia di migranti sul lato del peschereccio egiziano, per protendersi verso le luci del mercantile che si sta avvicinando a mezzanotte. Fino a far inclinare il barcone con la forza della disperazione e della speranza che diventano la stessa cosa: per poi rovesciarlo nel naufragio che condanna alla morte certa i profughi trasformati in prigionieri nelle stive chiuse a chiave dai trafficanti di schiavi.
Qualcosa di fisico e di metafisico insieme, come nei vecchi dipinti, nei racconti dei mercanti di uomini. Dobbiamo soltanto immaginare questa morte senza testimonianza e senza racconto, nell’era in cui tutto è rappresentazione. Noi che pensiamo che la sicurezza dipenda solo dalla sorveglianza e si realizzi soltanto con l’esclusione e la separazione, tenendo gli scarti umani a distanza, scopriamo che la distanza non ci protegge. Perché il numero dei morti la supera, e la annulla. Quel che non vogliamo vedere, lo dobbiamo contare e il saldo è la più grande tragedia di mare del secolo, a 180 miglia da Lampedusa, Europa.
È la rotta verso l’Europa che ci interpella e svela la contraddizione tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo. Quei 900 morti annegati nel Mediterraneo erano partiti dal Centro Africa puntando verso la costa di un’Europa che non conoscevano ma che inseguivano come una promessa di futuro, una sponda di sopravvivenza dove appoggiare il destino dei loro figli.
COSÌ ci vede la parte più disperata del mondo: la terra della libertà e del lavoro. Noi potremmo tradurre: della civiltà dei diritti e del diritto, della democrazia e della dignità delle persone, se fossimo consapevoli di noi stessi e degli obblighi che nascono da questa responsabilità.
Non lo siamo. L’Europa vive la tragedia del Mediterraneo come una crisi regionale meridionale, equipara nei numeri i flussi di migranti dall’Est europeo a quelli che vengono dall’inferno delle guerre e rischiano ogni ora la morte sui traghetti della disperazione. L’Italia sperimenta nel suo piccolo il dramma intero dell’epoca, con il governo nazionale costretto a fronteggiare una crisi di dimensioni globali. I politicanti più miserabili lucrano su questa impotenza strutturale della politica per desertificarla lasciando campo libero alle paure individuali di un mondo ignoto e fuori controllo, paure che non trovano più risposte pubbliche e collettive.
È come se si fosse rotto il cuore della civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, i codici del mare, la storia del Mediterraneo. Il risultato è una scissione: tra la sicurezza e la responsabilità, tra la politica e la morale, tra la legge e l’umanità, tra l’Europa e le sue parti. Soprattutto, tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, potremmo dire tra i ricchi e i poveri del mondo, che hanno perso il nesso da cui prendeva forma quel libero vincolo reciproco e comune chiamato società.
Una contraddizione capitale per l’Europa, davanti alla sua storia e al significato della sua civiltà. L’Italia, e persino la sinistra, hanno un’occasione enorme per pretendere che l’Europa restituisca una legittimità morale ad una sua politica che non può essere fatta soltanto di vincoli ciechi e di parametri ottusi, coniugando sicurezza e umanità: cominciando noi, intanto, con un’azione responsabile di soccorso di fronte all’emergenza. Per poi chiedere che la crisi del Mediterraneo diventi un problema di coscienza dell’Occidente, se vuole rispondere ai suoi doveri e alle nuove paure continuando ad essere la terra della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni.
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