by redazione | 22 Aprile 2015 9:13
Una mazzata sulla sanità. Già duramente provata dai tagli precedenti[1] oggi essa è chiamata ancora una volta a recuperare al suo interno quello che gli serve per sopravvivere. Eppure il governo a più riprese aveva assicurato che il tempo dei tagli lineari era finito.
A quanto pare non solo non è finito ma con questo Def prende avvio la prima tappa forzata di un programma di definanziamento progressivo pensato per ora fino al 2020. L’incidenza della spesa sanitaria sul Pil è stata fissata a 6.6 %, cioè il più basso d’Europa.
Oggi si tratta di recuperare almeno 2,637 mld di minore finanziamento. Domani non si sa.
A parte l’odiosità etica di queste misure che colpiscono anche direttamente i bisogni primari del cittadino, l’aspetto più inquietante è costituito dal falso riformismo che le ispira spacciato come una virtuosa spending review.
Il falso riformismo si comprende isolando l’idea chiave che pervade tutte le misure previste nel Def e nella definizione del “valore limite soglia[2]”. Essa indica i valori di compatibilità ai quali si ritiene di ammettere la spesa sanitaria al fine di ridurla considerandola come un fattore di nocività finanziaria. Per il Def produrre salute non è qualcosa che contribuisce ad accrescere la ricchezza del paese (sviluppo sostenibile), è semplicemente un fattore finanziario negativo dal quale bisogna proteggere il bilancio pubblico imponendo dei limiti. Fino a quando questo postulato non sarà ridiscusso avremo solo continui tagli lineari.
Nel Def il “valore limite soglia” è organizzato in diversi modi (sconti, tetti di spesa, pay back, inappropriatezza , prezzi di riferimento ecc) ma tutti con un comune scopo: contingentare la spesa nei vari settori sanitari con una soglia invalicabile per lo Stato oltre la quale le presunte ridondanze saranno scaricate in modo arbitrario.
Dico arbitrario per due ragioni:
Alcuni esempi concreti tratti dal Def:
Tutte queste misure hanno in comune un arbitrario “valore limite soglia” e un arbitrario “capro espiatorio” al quale imputare l’eccesso di spesa. Se un medico ritiene appropriato prescrivere un esame per il suo malato che senso ha far pagare al malato la prestazione solo perché sulla carta è valutata come inappropriata? Se la prestazione è davvero inappropriata allora dovrebbe essere il medico a risponderne.
La stessa cosa per i farmaci e i dispositivi sanitari che senso ha che chi li produce paghi le conseguenze del loro uso e del loro impiego? O ancora che senso ha imporre sconti forzosi a dei valori economici come i prezzi sapendo che quei valori a un certo punto diventano incomprimibili. In Germania il 15% dei prodotti innovativi sono stati ritirati dal commercio perché gli sconti forzosi sono stati ritenuti insostenibili per le aziende.
In sintesi il Def altro non è se non l’espressione di una politica di razionamento progressivo volta a limitare nel tempo il consumo di beni sanitari di prima necessità, quelli che dovrebbero essere distribuiti ad ogni malato in quantità e qualità determinata secondo il suo bisogno. L’aspetto odioso delle misure che ho richiamato è proprio questo: si vanno a colpire in modo diretto o indiretto i beni sanitari di prima necessità quindi dei bisogni primari.
Dietro alle etichette del Def (beni e servizi, dispositivi medici, ricoveri ecc) vi sono cose terribilmente concrete che servono ai malati come farmaci, protesi, apparecchiatura ‚trattamenti, ausili di ogni tipo. Il danno più grave resta tuttavia quello legato all’innovazione . Il Def alla fine sulla sanità taglia sull’innovazione per cui gli italiani complessivamente avranno rispetto agli altri cittadini europei meno possibilità di cura. Altra cosa sarebbe se Renzi entrasse davvero in una logica di riforma della sanità, nel senso di esaminare bene le dinamiche della spesa quali espressioni di un sistema sanitario che funziona male, che spreca, che abusa, mettendo a fuoco degli interventi riformatori veri senza per questo penalizzare l’unico vero innocente che è il malato. Ma per fare questo ci vuole un pensiero riformatore che non c’è.
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