“ I manicomi ora si chiamano psicofarmaci ”

“ I manicomi ora si chiamano psicofarmaci ”

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SI DEFINISCE uno “psichiatra riluttante”, stufo di fare il giudice dei matti. Talvolta usa parole come “carnefice” e “tortura”. Parla di pazienti legati al letto, di psicofarmaci somministrati non per curare ma per annichilire, di case di cura private che assomigliano ai «villaggi turistici della cronicità». È raro sentire un medico che si esprima con questa furente schiettezza sull’establishment psichiatrico e sui luoghi del disagio psichico. Quarantasette anni, irpino, brillante promessa (poi pentita) della psicofarmacologia, Piero Cipriano ha narrato in due libri la sua ventennale esperienza nelle “fabbriche della cura mentale”: così chiama i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, ossia i piccoli reparti ospedalieri dove si affronta la crisi psichiatrica.
I suoi racconti ripropongono il genere della testimonianza civile da parte dei medici di frontiera: un corpo a corpo con la follia restituito con la forza della denuncia e l’affilatezza delle immagini. L’ultimo, Il manicomio chimico , uscito ora da Elèuthera, richiama l’attenzione su un’emergenza diffusa anche se ancora invisibile. La nascita di un gigantesco manicomio che non è più quello chiuso da Franco Basaglia, ma uno ancora più subdolo e inafferrabile che viene edificato dagli psicofarmaci. Vecchie e nuove catene di cui non sappiamo liberarci.
Dottor Cipriano, nei suoi libri racconta storie di pazienti umiliati.
«Sì, storie di tortura. In questo momento ci sono trecento persone legate a un letto con le fasce di contenzione. Dei trecentoventitré servizi diffusi nel territorio nazionale, l’80 per cento è a porte chiuse, ha finestre con le sbarre e utilizza le fasce. Le terapie farmacologiche spesso vengono somministrate per ridurre il paziente in uno stato agonico. Aveva ragione Basaglia a temere che questi reparti potessero diventare piccoli manicomi».
Nei casi estremi legare non è una necessità?
«Ho visto persone costrette alle fasce solo per uno sputo sulla finestra. Oggi si lega con disinvoltura, come se fosse un gesto normale. Però non se parla. Una pratica tabù».
Accade solo nei reparti psichiatrici?
«Accade ovunque in ospedale. Prendiamo gli anziani, appannati da demenza o arteriosclerosi. Anche loro vengono legati. In un pronto soccorso romano, mi è capitato di vedere un vecchio prete polacco con i genitali per aria. Tutt’intorno camici e casacche linde che lo strattonavano, “anvedi, questo è un prete”, e giù a ridere. Ha ragione Ceronetti quando scrive che la più grande sciagura per un uomo è la lunga vita».
Lei non lega mai pazienti esagitati?
«Preferisco parlarci, fino allo sfinimento. E per bloccare una persona non escludo l’uso della forza fisica. Chi ha figli sa di cosa parlo. Qualche collega mi guarda con ribrezzo: talvolta è lo stesso collega che ordina le fasce, ma senza applicarle personalmente perché il lavoro sporco va lasciato ai subalterni. Io resto convinto che le fasce uccidano la relazione».
Ma cosa propone in alternativa ai SPDC?
«Basterebbe guardare ai modelli virtuosi, studiati nel mondo ma ignorati nel resto d’Italia. Non solo Trieste, ma anche Merano, Pistoia, Novara: tutte sedi dove vengono svolte attività domiciliari, oltre alla prevenzione e a colloqui più frequenti. Il paziente non ha bisogno solo di molecole, ma di una casa, di un lavoro, di relazioni. E la spia del funzionamento è proprio il SPDC: più è morbido il Servizio e più il territorio funziona bene. A Roma, al contrario, domina l’emergenza».
Mancano soprattutto le risorse.
«Il caso del Lazio è particolare. La metà del budget va alle cliniche private convenzionate con gli ospedali: dodici solo a Roma con milletrecento posti letto, sui quattromila delle case di cura distribuiti in tutto il territorio nazionale. L’iter è questo: il paziente in crisi arriva da noi, viene aggiustato farmacologicamente, poi affidato a quelli che Basaglia definiva gli imprenditori della follia, che lo ospitano per due o tre mesi riempendolo di farmaci. E poi si ricomincia. Crisi, 118, arrivo al SPDC, eccetera. Si ripropone la dinamica del manicomio, una sorta di internamento diffuso e circolare. E sta tornando pericolosamente in auge la pratica dell’elettroshock».
Lei viene da quella scuola.
«Sì, lavoravo nella clinica universitaria di Pancheri, Biondi e Bersani, luminari della psichiatria. E venni reclutato per il gruppo dell’elettroshock, il più ambito. Poi andai a fare il servizio civile a Montevarchi, dove m’imbattei in una psichiatria diversa».
È anche grazie ai suoi studi sulla psicofarmacologia che lei mette in guardia dagli abusi.
«Denuncio questo nuovo immenso manicomio chimico che recluta i sani. Oggi si diventa pazienti psichiatrici senza saperlo. Tristezza e lutti, rabbia e timidezza, disattenzione ed effervescenza: per ogni emozione forte c’è la pillola giusta. Pensiamo al lutto. Oggi se questa tristezza dura un po’ più del previsto viene rubricata come una depressione e di conseguenza curata con gli psicofarmaci. Per non parlare dell’arruolamento dei bambini: i bulli e gli svogliati sono etichettati come iperattivi. Ma questo è un modo di fabbricare malati. Un bambino diagnosticato iperattivo sarà curato con molecole che lo renderanno un depresso, e poi la depressione sarà curata con farmaci che creeranno eccitazione, e quel bambino è condannato a essere un giovane psicotico».
La sua lezione è molto chiara.
I farmaci creano dipendenza.
E possono provocare nuove psicopatologie.
«Il caso Lubitz è interessante. Il suo spettacolare suicidio mette insieme il senso di fallimento esistenziale e una sorta di delirio di onnipotenza: una condizione tipicamente iatrogena, ossia provocata dai farmaci. Qualcuno mi provoca: ma tu che fai, non dai pillole? Ma certo che le do, ma con parsimonia e solo nelle condizioni gravi. E bisogna sospenderle appena è possibile. L’assunzione prolungata modifica l’equilibrio chimico del cervello che sempre più dipenderà da quella sostanza».
Oggi appare diffuso l’uso “cosmetico” del farmaco.
«Sì, per sentirsi in forma. Nel libro racconto di una brillante professionista che era stata curata per una depressioncina con una pillola e mezza di Prozac, ma venne da me perché gliene somministrassi due. Stava bene ma voleva sentirsi ancora più su. Mi rifiutai di accontentarla, avendola vista già abbastanza eccitata. “Ma come, dottore, non è contento se preferisco il Prozac alla cocaina?”. Naturalmente non l’ho più vista».
Lei non fa distinzione tra psicofarmaci e droghe.
«Sono entrambi sostanze psicotrope, con la differenza che i farmaci sono legali, le altre no. Mi diverto a parafrasare l’incipit di Roberto Saviano in Zero Zero Zero, il libro sulla diffusione di cocaina. Tra poco sarà difficile trovare un pilota con la fedina psichiatrica pulita, o anche un medico o un conduttore di treno, scrittori, politici e cani. Mi viene in mente la provocazione di Michel Foucault: tutto il mondo è diventato un grande manicomio. Ci siamo quasi».
Ma noi non eravamo il paese della rivoluzione basagliana?
La sua denuncia mostra una resa totale alle catene, chimiche o di altra natura.
«Basaglia ha dimostrato che si poteva curare la malattia mentale in altro modo, e indietro non si torna. Però noi basagliani di seconda generazione restiamo una minoranza, e bisogna lavorare ancora molto. Io non dispero».
Il dottor Cipriano tra qualche mese sarà trasferito nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’ospedale San Giovanni, l’unico nel Lazio che abbia le porte aperte.
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IL SAGGIO
Il manicomio chimico di Piero Cipriano (Elèuthera pagg. 256, euro 15)


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