Grecia, l’Europa alla prova della ragionevolezza
Era un Alexis Tsipras diverso quello che Angela Merkel e François Hollande hanno incontrato ieri a Bruxelles. Più risoluto, più deciso e anche più preoccupato. Dietro i sorrisi e l’ostentazione di ottimismo di facciata, il leader greco nasconde un forte cruccio. I mesi passano e l’accordo del 20 febbraio sulle riforme rimane lettera morta. L’eurogruppo, il regno di Schäuble, non solo non collabora con l’esecutivo di Atene ma, al contrario, ha lanciato un’offensiva mediatica preoccupante.
A leggere la stampa tedesca (e i suoi argomenti tradotti in italiano) sembrerebbe che tutto sia bloccato perché Tsipras e Varoufakis non sono ferrati in aritmetica. Ovviamente, la verità è che Berlino non vuole consentire ad Atene di uscire dallo stretto ambito definito negli ultimi quattro anni e gioca la carta dello strangolamento lento. Apparentemente è una questione tecnica, nella sostanza si attende che la Grecia finisca di grattare il fondo del barile per arrivare esausta a giugno, cioè alle scadenze importanti del debito. A quel punto, si pensa, sarà facile imporre un ritorno alla politica di austerità e la firma di un nuovo debito per pagare quelli precedenti. In questo progetto sembra partecipare anche Mario Draghi che ha sorprendentemente escluso la Grecia dal quantitative easing, sul quale contava molto il governo greco.
Finora Tsipras ha puntato fortemente alla soluzione concordata, convinto che ci fossero nell’eurozona «forze ragionevoli» in grado di arginare gli estremisti tedeschi. Ha pagato regolarmente le tranche del debito, ha rinviato riforme importanti del suo programma, ha negoziato fino all’esaurimento. Ma non ha ottenuto nulla.
Prima di partire per Bruxelles il premier greco aveva dichiarato che non dà ultimatum ma neanche li riceve. Non sarà stato quindi un ultimatum, ma era sicuramente una richiesta forte quella che ha sottoposto ai suoi due interlocutori. L’accordo sul debito che scadeva il 31 dicembre 2014 era stato prolungato, di comune accordo, fino al 30 aprile. Se anche questa scadenza sarà lasciata cadere senza arrivare a un accordo, allora la Grecia si riterrà non più vincolata da alcun impegno verso i creditori. In pratica significa che se l’Unione europea continuerà a rifiutarsi di versare quella maledetta ultima tranche del debito del 2012, i 7,2 miliardi, e se il Fondo monetario internazionale non accetterà alcuna facilitazione nei pagamenti, allora c’è il rischio che il governo greco si trovi di fronte a un’alternativa drammatica: o pagare i suoi conti interni oppure il debito. Soldi per pagare ambedue non ci sono. E Tsipras più volte ha avvisato i creditori che di fronte a questo drammatico dilemma avrebbe senz’altro optato per i pagamenti interni e non per il debito.
La richiesta quindi è chiara e decisa: bisogna arrivare a un accordo subito, magari nella riunione dell’eurogruppo di oggi a Riga oppure organizzarne una per la settimana prossima. Un accordo sulla base di quello concordato finora (si dice che riguardi il 70% del programma), lasciando da parte le richieste inaccettabili per Atene, come quella di tagliare di nuovo le pensioni, licenziare alcune migliaia di statali, aumentare le tasse e regalare 14 aeroporti periferici alla Germania. Tsipras ha anche ripetuto che magari questi 7,2 miliardi potrebbero essere versati a rate, in seguito all’applicazione di ogni misura concordata.
In sostanza, i nodi sono arrivati al pettine. Se l’espulsione della Grecia dall’eurozona è stato l’argomento principe della campagna mediatica contro Atene già prima delle elezioni greche, ora forse è il momento di misurare la volontà reale di Berlino di arrivare allo scontro frontale. Dentro al governo greco si spera ancora in una decisione politica per evitare lo spargimento di sangue. Per questo è stato anche richiesto l’incontro di ieri. Nei prossimi giorni si vedrà se nell’Ue ci sono ancora margini di ragionevolezza oppure il fronte neoliberista domina incontrastato.
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