Gli spari in aula mentre il teste giura «Li ho uccisi per vendicarmi»

Gli spari in aula mentre il teste giura «Li ho uccisi per vendicarmi»

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MILANO Prima di uccidere parlava a voce bassa. Seduto su una panca, in fondo all’aula: «Avvocato, ma perché non ha fatto anche quella domanda?». Processo per bancarotta fraudolenta, questioni di bilancio. Il cliente insiste; il legale Michele Rocchetti si infastidisce: «Sto facendo il mio lavoro, per cortesia». E poi: «Se le cose stanno cosi, io rimetto il mandato, mi dispiace». Pausa. Il giudice deve portare avanti l’udienza: «Facciamo entrare il prossimo testimone». L’avvocato Lorenzo Claris Appiani, 37 anni, si siede al centro della stanza, sta per giurare. Terzo piano del Palazzo di Giustizia di Milano, Seconda sezione penale: la strage inizia in quel momento, sono le 10.50.
Claudio Giardiello, 57 anni, si alza e impugna la sua Beretta 98, pistola che deteneva regolarmente. Spara a due suoi vecchi soci, imputati con lui nella bancarotta della «Immobiliare Magenta srl», vendita e ristrutturazione di appartamenti, dalle cui casse sono spariti 2 milioni e 800 mila euro prima del crack finanziario: Davide Limongelli, 41 anni, è anche suo nipote; Giorgio Erba, 59 anni, aveva una società collegata. Colpi precisi. Al petto, all’addome. L’avvocato Appiani resta impietrito per un secondo; Giardiello gli punta la pistola, spara ancora. Giudici e avvocati si buttano a terra, cercano riparo, riescono a infilarsi nella camera di consiglio. Il Palazzo di Giustizia è uno stabile enorme, pareti di marmo, ascensori, decine di corridoi, un labirinto in cui è complicato orientarsi, una cittadella attraversata da migliaia di persone ogni giorno. Gli spari rimbombano: «Cosa è successo?», si chiedono nelle aule vicine; ma nessuno si rende conto di chi possa essere l’uomo che imbocca lo scalone che scende al secondo piano, gira e corre giù fino al primo. Giardiello incrocia Stefano Verna, 50 anni, commercialista, in passato incaricato di fare approfondimenti sulla «Magenta Srl». Lo riconosce, spara, lo colpisce a una gamba. Il secondo tempo della strage si ferma qui, ma non è finita.
Mentre una decina di persone fuggono dall’uscita di via Manara, e Verna crolla a terra, Giardiello risale al secondo piano. Spree killing , questa è la definizione della criminologia anglosassone, omicidi a catena in un’esplosione di violenza irrefrenabile. L’assassino percorre un lungo corridoio, gira l’angolo, seconda porta a destra, stanza 250: Fernando Ciampi, 71 anni, giudice fallimentare, che in passato si sarebbe occupato delle disavventure finanziarie di Giardiello, è seduto alla sua scrivania, una collaboratrice lo sta aiutando per un piccolo guasto al computer. Giardiello entra e spara due colpi, il giudice si accascia sul pavimento. Il killer si confonde nella folla che in quel momento fugge nei corridoi, esce dal palazzo, sale sul suo scooter Suzuki parcheggiato in via Manara, scappa.
Sono passati 10 minuti dal primo sparo: l’avvocato Appiani è morto, il giudice Ciampi è morto, Giorgio Erba morirà poco dopo al Policlinico, Limongelli si salverà dopo un intervento, il commercialista Verna non è in pericolo di vita. In tutto, Giardiello ha sparato 13 colpi.
In quel momento il Palazzo di Giustizia è blindato. Polizia, carabinieri, giubbotti antiproiettile, pistole in pugno, tutte le aule sbarrate, persone chiuse dentro, agenti e militari iniziano a setacciare i corridoi; bisogna fare una «bonifica completa» dello stabile, perché non si sa se il killer sia nascosto ancora dentro. Inizia a circolare la domanda: come è possibile che un imputato entri in Tribunale con una pistola?
Per chi frequenta il Palazzo non è complicato rendersene conto. Ci sono quattro ingressi: testimoni, pubblico e familiari devono passare sotto i metal detector, un controllo simile a quello che si fa negli aeroporti; magistrati, avvocati e impiegati hanno invece un altro canale e un’entrata riservata (probabilmente proprio quella da cui è passato Giardiello alle 9.19). Qui basta mostrare un tesserino di riconoscimento, che spesso, per prassi, non viene esaminato con particolare scrupolo dagli addetti della società di sicurezza, anche perché ogni mattina passano migliaia di persone, e quasi tutti vanno di fretta. Sono in corso accertamenti per chiarire se avesse un tesserino falso, ma il killer dev’essersi confuso in questo flusso. E doveva aver premeditato la strage: aveva con sé due caricatori, ha sparato a tutte le persone di cui, in seguito, ha ammesso di volersi vendicare («Perché mi avevano rovinato»), aveva già minacciato il nipote. È stato proprio Davide Limongelli a raccontarlo: «Dal 2008 non avevamo più rapporti, lo vedevo solo in Tribunale e ultimamente avevo paura di incontrarlo, perché più volte mi ha detto “ti ammazzo”, “prima o poi te la faccio pagare”». L’ossessione di Giardiello s’era arroventata nei bilanci di quell’immobiliare. E davanti alla bancarotta il nipote, dopo essersi ritrovato imputato, aveva testimoniato contro lo zio.
Le indagini dei carabinieri partono pochi minuti dopo la strage; sono coordinate dal procuratore aggiunto Alberto Nobili; le guidano il comandante provinciale Maurizio Stefanizzi, il tenente colonnello Biagio Storniolo e il capo del Nucleo investigativo, Alessio Carparelli. Procedono a ritmo serratissimo: hanno in mano i dati del killer, diffondono la foto sui telefonini di tutti gli investigatori; interrogano le banche dati e tirano fuori la targa dello scooter, la girano alle pattuglie in strada, la inseriscono nei sistemi di ricerca. In questo lasso di tempo Giardiello attraversa Milano, arriva a Cologno Monzese, imbocca viale Lombardia e passa sotto le telecamere del Comune di Brugherio, che sono governate da un sistema molto sofisticato. Gli occhi elettronici sono in grado di leggere le targhe «ricercate» e, nel caso di un transito, il cervellone invia un’allerta ai carabinieri. La targa di Giardiello è stata inserita solo da qualche minuto, ma intorno a mezzogiorno i militari della compagnia di Vimercate ricevono il messaggio. Le pattuglie si mettono alla ricerca. I carabinieri agganciano il killer vicino al centro commerciale «Torri bianche». È mezzogiorno e un quarto. Giardiello non si agita. Gli mancava un bersaglio: «Dovevo ammazzare un altro». Massimo D’Anzuoni, uno dei suoi vecchi soci. Che in serata azzarda un’ipotesi sul delirio dell’immobiliarista assassino: «Credo che la sua crisi sia iniziata quando ha pensato che tutti gli amici lo avessero abbandonato. Peccato che la storia non è andata così».
Cesare Giuzzi
Gianni Santucci


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