«Facevano telefonare gli studenti a casa Poi li uccidevano con un colpo alla nuca»
by redazione | 4 Aprile 2015 10:15
Il giorno dopo il massacro di studenti nel campus di Garissa compiuto dagli shebab somali, il Kenya piange i suoi ragazzi, per lo più cristiani. Dalle testimonianze dei sopravvissuti emergono particolari raccapriccianti sull’assalto. I terroristi ieri sono tornati a minacciare nuove stragi («Non ci sarà alcun luogo sicuro per i keniani, fintanto che il Paese manterrà le sue truppe in Somalia»), e tra i cristiani cresce la paura, soprattutto in vista delle funzioni pasquali. Il bilancio ufficiale delle vittime è salito ieri a 148 (142 studenti, 3 agenti e 3 soldati), ma mancano ancora molti ragazzi all’appello: secondi i salesiani i morti potrebbero essere 200. Intanto crescono rabbia e polemiche per un attacco annunciato che a detta di molti poteva essere evitato. Sotto accusa il governo per non avere preso adeguate misure di sicurezza e per avere sottovalutato la minaccia jihadista e l’allerta dell’intelligence. In rete la solidarietà con i keniani corre sotto l’hashtag #WeAreAllKenyans. Si è finta morta, cospargendosi viso e capelli con il sangue dei compagni uccisi e si è salvata. Helen Titus, 21 anni, cristiana, studentessa di letteratura inglese, è sopravvissuta al massacro nella sua università, a Garissa in Kenya, con macabra prontezza. E con lucidità nonostante lo choc ricostruisce quegli infiniti momenti di terrore: «Appena entrati nel campus gli assalitori si sono diretti verso l’aula magna dove noi cristiani stavamo recitando le preghiere del mattino. Avevano studiato l’edificio, sapevano tutto». Poi si sono diretti verso i dormitori. Hanno urlato ai ragazzi di venir fuori. Alcuni sono scappati buttandosi dalla finestra, riferisce un’altra sopravvissuta, Nina Kozel: «Quelli che si sono nascosti sotto il letto e negli armadi sono stati uccisi sul colpo, mentre quelli che si sono arresi sono stati liberati se musulmani e uccisi se cristiani».
«Buona Pasqua»
I cristiani venivano individuati anche «per come erano vestiti» testimonia Salias Omosa, 20 anni, studentessa di pedagogia, riuscita a scappare dopo aver assistito all’esecuzione di due amici. Gli assalitori, dice, prima di sparare urlavano in swahili «Non abbiamo paura della morte, questa sarà una buona Pasqua per noi».
Non solo. I terroristi «hanno costretto i ragazzi a chiamare casa per dire: “noi moriamo perché Uhuru (Kenyatta, il presidente keniano, ndr) persiste a restare in Somalia» racconta Amuna Geoffreys, che studia per diventare insegnante. Dopo ogni telefonata, uno sparo: venivano uccisi sul colpo, ricostruisce Amuna. Riuscito a nascondersi fuori dall’edificio dietro a un cespuglio, sentiva attraverso una finestra aperta le agghiaccianti minacce rivolte dai jihadisti ai suoi compagni.
I compagni musulmani
Il giorno dopo la strage sono tanti i dettagli che emergono dal racconto dei sopravvissuti. Come la mano tesa tra compagni di fedi diverse. Ahmed Youssouf dice che si trovava all’interno della moschea dell’università con altri compagni musulmani quando è iniziato l’assalto. A un certo punto «i ragazzi cristiani hanno iniziato a riversarsi nella moschea alla ricerca di un rifugio e noi li abbiamo nascosti. Molti di loro poi sono riusciti a scappare e a raggiungere il cancello dell’università».
L’ansia per i dispersi
Un numero imprecisato di studenti del campus manca ancora all’appello: non risultano né tra le vittime né tra i sopravvissuti. Fuori dall’obitorio di Nairobi, dove i cadaveri sono stati trasportati per l’identificazione, familiari e amici scorrono e riscorrono la lista di vittime e sopravvissuti, in continuo cambiamento. Molti hanno passato la notte accampati lì davanti. «Prego Dio che sia ancora viva» implora sotto choc Monica Wamboi che non ha più avuto notizie di sua nipote Bilha, dopo l’attacco. «Abbiamo contattato la polizia e l’ospedale, non sanno nulla». Scoppia in lacrime Mary Chege: «è troppo, troppo dura. I miei compagni, persone con cui ridevo, mangiavo… tutti morti». La speranza è che qualcuno sia ricoverato da qualche parte o che spunti fuori. «Alcuni stanno tornando ora, dopo essere rimasti nascosti nella savana o nei villaggi vicini dopo essere fuggiti durante l’attacco», dice Lennie Bazira a capo della ong Amref Kenya. I suoi operatori durante l’assedio hanno offerto primo soccorso ai feriti, e poi hanno partecipato alle operazioni di recupero dei corpi.
Sotto i cadaveri
Il dottor Hussein Bashir è uno dei soccorritori: «Non ho mai visto nulla del genere — racconta traumatizzato al Corriere — quando sono entrato nel campus c’erano 122 corpi con il volto rivolto a terra ammassati uno accanto all’altro, qualcuno sopra, e sangue ovunque. Poveri ragazzi innocenti, molte ragazze, vittime di vere esecuzioni: sono corpi con ferite alla nuca a distanza ravvicinata. È la peggior tragedia a cui abbia assistito in 18 anni di lavoro».
Stesso sconcerto per Reuben Nyaora, operatore della ong International Rescue Committee: «C’erano cadaveri dappertutto, con teste tagliate e ferite da proiettile ovunque. Sembravano tutti morti, ma tre donne coperte di sangue sono emerse da un cumulo di cadaveri. «Le ragazze hanno riferito che gli assalitori hanno urlato: “siamo venuti per uccidere ed essere uccisi”. Poi hanno invitato le donne a “nuotare nel sangue”».