Droni, la guerra invisibile con 5 mila morti
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WASHINGTON «Questi figli di puttana stanno uccidendo degli americani, ne ho abbastanza». George W. Bush non può essere più esplicito, si rivolge così al responsabile dell’intelligence Hayden. Che esegue. I droni americani inizieranno a colpire i talebani nell’area tribale pachistana senza chiedere permesso a Islamabad. E in base alle direttive i velivoli spareranno i micidiali missili Hellfire in base al ragionevole sospetto che il target sia un terrorista. Non si sono più fermati. Anzi, quando alla Casa Bianca è entrato Barack Obama i numeri dei raid affidati al «mietitore» sono aumentati. Incursioni che hanno incenerito terroristi ma anche civili, in una campagna senza limiti dall’Afghanistan allo Yemen, dalla Somalia all’Iraq.
All’inizio il cuore delle operazioni era un luogo nel deserto del Nevada. Indian Springs. Vicino ad una vecchia riserva di nativi e ad un carcere di massima sicurezza c’è la base di Creech. L’abbiamo visitata nel 2008 quando era ancora aperta ai media. Abbiamo visto i Predator in addestramento e parlato con i piloti, al loro fianco gli addetti alle armi. Alcuni davvero giovani, chiamati a premere il pulsante di «fuoco» per centrare l’auto dei militanti a migliaia di chilometri di distanza dal loro cubicolo. Li chiamano i pendolari della guerra, perché molti arrivano ogni giorno in bus da Las Vegas, dove vivono e dove ritornano, finito il turno. Protagonisti di questa nuova forma di conflitto, «sterilizzato» quanto si vuole ma che non fa sconti. Un senatore americano si è lasciato scappare che le macchine volanti hanno ucciso 5 mila persone, compresi 64 elementi di spicco del terrorismo. Insieme a loro un buon numero sono civili, come Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein. Associazioni per i diritti umani o indagini giornalistiche ritengono che siano molti di più.
Oggi Creech non è più sola. Ci sono decine di installazioni che svolgono lo stesso ruolo. In Gran Bretagna, Turchia, Arabia Saudita, Germania, Italia, a Langley, sulle rive del Potomac. Solo per citare alcuni dei punti collegati da una rete via satellite che permette agli equipaggi di restare al sicuro mentre i loro velivoli decollano da piste in vicinanza delle zone operative e rimangono sul quadrante per ore.
È qui la loro forza. Non rischi i piloti, segui un obiettivo quasi all’infinito, lo sorprendi quando esce dal rifugio. E, aspetto non da poco, puoi mandare il cacciatore in zone dove è complicato impiegare commandos o agenti segreti. Per questo il presidente americano ha trasformato l’arma in strategia. Colpendo come un fabbro. Operazioni parte di quella guerra «leggera» che prevede pochi uomini sul terreno ma tante azioni speciali. Attacchi che però dipendono dagli informatori sul terreno, coloro che confermino la presenza del nemico e non di un cittadino qualsiasi. Se manca questo il drone può sbagliare.
Le missioni cerca e distruggi sono affidate al tandem Us Air Force/intelligence. Quasi 700 velivoli, compresi gli 80 a disposizione della Cia. Attorno un network di supporto con il ruolo fondamentale del DGS 1, le unità che ricevono i video registrati dalle telecamere sui Reaper, le esaminano e poi aiutano a preparare le liste dei bersagli. Al fianco dei piloti siedono ufficiali dello spionaggio che verificano i dati, consultano i loro colleghi, quindi attendono un ordine. Dal capo dell’antiterrorismo della «compagnia», uno che deve essere rintracciabile 24 ore al giorno. È un’Armada poderosa, costantemente in azione. Non c’è giorno, non c’è notte. I dati dicono che nel 2014 i soli droni militari hanno registrato 369.913 ore di volo, parametri che misurano una parte degli oltre 500 colpi attribuiti ai terminator.
Numeri che si tramutano in un’eredità pesante. La stessa Cia, alcuni anni fa, metteva in guardia sulla tattica controproducente, perché creava rabbia nelle popolazioni e toglieva di mezzo i criminali ma, alla fine aveva, un impatto limitato sugli estremisti.
Senza contare che un giorno potrebbero chiedere conto a Obama portandolo davanti ad un tribunale. La Casa Bianca nel 2014 ha frenato sulle incursioni, 19 in Pakistan contro 122 del 2010, ma non li ha certo ha fermati. Tanto è vero che sono tornati protagonisti nell’inferno dello Yemen.
Guido Olimpio
Oggi Creech non è più sola. Ci sono decine di installazioni che svolgono lo stesso ruolo. In Gran Bretagna, Turchia, Arabia Saudita, Germania, Italia, a Langley, sulle rive del Potomac. Solo per citare alcuni dei punti collegati da una rete via satellite che permette agli equipaggi di restare al sicuro mentre i loro velivoli decollano da piste in vicinanza delle zone operative e rimangono sul quadrante per ore.
È qui la loro forza. Non rischi i piloti, segui un obiettivo quasi all’infinito, lo sorprendi quando esce dal rifugio. E, aspetto non da poco, puoi mandare il cacciatore in zone dove è complicato impiegare commandos o agenti segreti. Per questo il presidente americano ha trasformato l’arma in strategia. Colpendo come un fabbro. Operazioni parte di quella guerra «leggera» che prevede pochi uomini sul terreno ma tante azioni speciali. Attacchi che però dipendono dagli informatori sul terreno, coloro che confermino la presenza del nemico e non di un cittadino qualsiasi. Se manca questo il drone può sbagliare.
Le missioni cerca e distruggi sono affidate al tandem Us Air Force/intelligence. Quasi 700 velivoli, compresi gli 80 a disposizione della Cia. Attorno un network di supporto con il ruolo fondamentale del DGS 1, le unità che ricevono i video registrati dalle telecamere sui Reaper, le esaminano e poi aiutano a preparare le liste dei bersagli. Al fianco dei piloti siedono ufficiali dello spionaggio che verificano i dati, consultano i loro colleghi, quindi attendono un ordine. Dal capo dell’antiterrorismo della «compagnia», uno che deve essere rintracciabile 24 ore al giorno. È un’Armada poderosa, costantemente in azione. Non c’è giorno, non c’è notte. I dati dicono che nel 2014 i soli droni militari hanno registrato 369.913 ore di volo, parametri che misurano una parte degli oltre 500 colpi attribuiti ai terminator.
Numeri che si tramutano in un’eredità pesante. La stessa Cia, alcuni anni fa, metteva in guardia sulla tattica controproducente, perché creava rabbia nelle popolazioni e toglieva di mezzo i criminali ma, alla fine aveva, un impatto limitato sugli estremisti.
Senza contare che un giorno potrebbero chiedere conto a Obama portandolo davanti ad un tribunale. La Casa Bianca nel 2014 ha frenato sulle incursioni, 19 in Pakistan contro 122 del 2010, ma non li ha certo ha fermati. Tanto è vero che sono tornati protagonisti nell’inferno dello Yemen.
Guido Olimpio
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