by redazione | 19 Aprile 2015 8:59
Il rito degli anniversari riserva talvolta buone sorprese. A cinquanta anni dalla scomparsa, ritorna visibile, con un imponente volume, Pier Antonio Quarantotti Gambini, istriano e triestino (Opere scelte, a cura e con una bella introduzione di Mauro Covacich, Bompiani, pp. XLIV-1505, euro 35,00). Il volume comprende alcuni tra i titoli migliori dello scrittore: i romanzi e racconti L’onda dell’incrociatore, Amor militare, Il cavallo Tripoli, I giochi di Norma; le memorie politiche e civili di Primavera a Trieste; gli scritti di viaggio Sotto il cielo di Russia e Neve a Manhattan, il carteggio con Saba.
Quarantotti, poi improvvisamente scomparso, pensò a un certo punto di organizzare le sue opere narrative in un ciclo unitario, Gli anni ciechi, polittico che sempre ha sullo sfondo i territori intorno a Pola, così descritti da Fulvio Tomizza in Alle spalle di Trieste: «un’Istria marcatamente e forse pomposamente veneta, che in un certo senso mi esclude e che sento appartenere di diritto al suo vero cantore, Pier Antonio Quarantotti Gambini, ma anche al Giani Stuparich di Racconti istriani». Né vanno trascurati due brevi quanto intensi riferimenti di Tomizza ai territori del nostro cantore: «Ciò non significa che io non ami quel dono di Dio che si chiama Rovigno, o mi senta estraneo ai pianori di terra bianca e pietra gialla sopra Capodistria». L’Istria «quasi anonima» prediletta da Tomizza è amata perché sembra «meno condizionata dalla storia»; l’Istria di Quarantotti Gambini fu, al contrario, tanto intrisa di storia da strariparne. Quei luoghi furono per Quarantotti Gambini una radice biografica e poi un modo di rappresentazione dove sembrava di poter scorgere, come in scorcio, lo svolgersi del tempo – un ampio arco di Novecento – nello spazio, che è sempre l’arte del raccontare secondo il ritmo della vita. Una nota d’autore aggiungeva alla data di nascita, nel 1910: a Pisino d’Istria, «città italiana che il trattato di pace attribuisce alla Jugoslavia, da Giovanni e Fides Histriae Gambini”.
I due punti di riferimento di Quarantotti Gambini, Trieste e l’Istria, si trovano ad attirare e a raggruppare i suoi titoli, a partire dalla mitica Semedella, che inaugura come luogo perduto e affettivamente ritrovato il ciclo degli Anni ciechi – fino alla meravigliosa, elegantissima rassegna di luoghi, paesaggi e personaggi consegnata a Luce di Trieste. Lo struggimento e l’ansia del confine sono recati in Quarantotti Gambini da una scrittura di grande calma sotto la quale agisce una febbre almeno di stessa grandezza. Quando comincia il racconto di Gli anni ciechi, l’Istria sta nell’Impero austro-ungarico; poi sono, dal ’18 al ’43, venticinque anni di Italia; dal ’43 al ’45 avamposto della Germania hitleriana sull’Adriatico: poi terra titina e jugoslava, con Trieste che diventa confine, lembo ultimo di un territorio perduto, e con Capodistria diventata irraggiungibile.
Paolo de Brionesi Amidei, protagonista degli Anni ciechi, si imbarca a Venezia, passa per Trieste e fa crociera verso l’Istria. E guardando Capodistria lontana e sola da bordo del «Valmarino», comincia a ripercorrere, nel ricordo di geografia e storia, il Novecento di quelle terre. Si vorrebbe dire che, attraverso Paolo e gli anni di cecità della sua infanzia e adolescenza, Quarantotti Gambini ha accolto la storia di quelle terre e ne ha infisse le radici come in un vaso più antico. Se si dà un’occhiata alla cartina dell’Istria, scorrendo con gli occhi e scendendo da Trieste verso la punta della penisola, verso Pola, giusto prima delle isole Brioni che danno l’origine onomastica al protagonista degli Anni ciechi, si incontra Rovigno, il segno più certo dell’accoglienza della storia come luogo di civiltà e di umano sentire sul quale si posa la vicenda di Paolo. L’intreccio con la storia, così sempre urgente, Quarantotti Gambini lo ha ricostruito nella premessa a Primavera a Trieste: «L’autore di questo libro – come tutti i suoi conterranei sopra i trent’anni – è nato sotto una dominazione straniera: quella dell’impero austro-ungarico. Ha poi conosciuto, alla fine della prima guerra europea e dopo un breve periodo di governo liberale, vent’anni di fascismo. Più tardi, durante la seconda guerra europea, ha sperimentato la dittatura nazista (che nella Venezia Giulia, quasi annessa al Reich sotto l’autorità semisovrana di un Oberkommissar e Gauleiter, premette in modo particolare); e a guerra finita, nel maggio ’45, ha dovuto subire la dittatura comunista del maresciallo Tito. Oggi infine (se è possibile dire infine) egli è cittadino del Territorio Libero di Trieste, e precisamente di quella Zona A ch’è amministrata dagli angloamericani. In meno di sei lustri, fra guerre e paci: austriaci, italiani, germanici, jugoslavi, neozelandesi, inglesi, americani; e liberali, fascisti, nazisti, comunisti. Sembra che l’ago di una bussola impazzita abbia voluto segnare, a una a una, tutte le direzioni della rosa dei venti: Vienna, Roma, Berlino, Belgrado, Londra e Washington, e proprio nei momenti politicamente più critici per ognuna di queste capitali. Basta rilevare ciò – forse – per esprimere il drammatico destino di Trieste e dell’intera regione che sta fra l’Isonzo, le Alpi Giulie e il Quarnaro». La primavera di cui si parla va dal 29 aprile al 12 giugno del ’45, «un periodo in cui converse fatalmente, aggrovigliandosi in un nodo mostruoso, quanto di più crudele era andato maturando da decenni». Da quelle settimane Trieste diventa «una specie di teatro lillipuziano, su cui molti si agitano illudendosi di recitare alla ribalta del mondo»: un teatro sul cui fondo sta l’immagine incancellabile, ferma nel ricordo, delle «folle attonite che fluivano incessantemente per le sue vie». Né, negli Anni ciechi, si omette testimonianza sulle foibe.
Per Quarantotti Gambini le sue terre furono dunque storia. E letteratura, molta letteratura, come si sa a partire da Il vecchio e il giovane, l’epistolario con Saba. E se si può pensare che Sotto il cielo di Russia si presentasse come l’occasione di rasserenare il rapporto con l’anima slava, nell’intervista a Gian Antonio Cibotto, «Quarantotti Gambini, ‘un italiano sbagliato’», lo scrittore, parlando del quid che unisce certi autori giuliani, ne rilevava le caratteristiche anche dalla presenza slava nel «ceppo neolatino»: una presenza temperamentale, per la quale sarà bene tener davanti il riscontro del viaggio russo. Ma sarebbe fuorviante considerare una genealogia unicamente giuliana, così attento Quarantotti Gambini fu alla varia cultura letteraria dei suoi giorni.
Ciò che, finita l’infantile cecità, vede Paolo adulto non è diverso da ciò che vide l’autore e che ci viene riferito da Primavera a Trieste alla data 27 maggio 1945: «Ecco l’Istria laggiù, lieve e sfumata sul mare. Lì dentro, in mezzo a quei promontori verdi, è Capodistria; lì fuori su quella punta è Pirano, piccola chiara appena visibile sopra la lieve foschia estiva, col campanile che luccica nel sole. E più giù, invisibili ma vive in me, Parenzo con la sua basilica; e Rovigno cui mi legano tanti secoli di vita patrizia e marinara della mia famiglia paterna; ed Albona tutta di sasso, spalto d’Italia sul Quarnaro; e Pisino nell’interno, la mia cittadina natale»; guardare queste terre è pensare a chi vi abitò. Quel nonno degli Anni ciechi per esempio, quel Gambini «che conosceva l’Istria, la ‘provincia’, come il palmo della propria mano» (il lettore se n’è accorto, la lingua italiana è in Pier Antonio sempre piena di luce).
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