Come evitare la prossima strage di migranti nel Mediterraneo

Come evitare la prossima strage di migranti nel Mediterraneo

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Sulla scala delle innumerevoli crisi con cui l’Europa si trova ad avere a che fare, quella dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo è ormai tra le più gravi per le sue proporzioni in termini di persone e di valori morali coinvolti.
Se vogliamo comprenderne le dimensioni reali, non possiamo trascurare alcuni dati. Il primo è certamente quello della consistenza inedita dei flussi migratori: tanto grandi che non solo l’Italia, ma l’intera Europa non ne ha mai visti di simili nella sua storia recente. Per quanto i singoli Stati possano credere bene di intervenire promulgando leggi aspre e repressive, o pensare di impiegare armi e soldati per blindare il confine marittimo, il numero di persone disposte a rischiare di morire per arrivare nel nostro continente non diminuirà. Lo si comprende osservando una mappa del mondo: attorno all’Europa si sono moltiplicati gli scenari di crisi, le guerre, le guerre civili, le carestie – un cambiamento spesso dovuto proprio alla goffa diplomazia o agli errori di calcolo strategico dei singoli Stati europei. Mali e Algeria, Sahel, Libia, Darfur e Corno d’Africa; Siria, Iraq e Afghanistan: lasciarsi alle spalle questi inferni vale qualsiasi pena e qualsiasi spesa.

Il crollo di molti Stati e apparati amministrativi conseguente a queste crisi agevola i trafficanti di esseri umani: il tragitto attraverso il Sahara o per le rotte del Medio Oriente e l’imbarco dalle coste mediterranee avvengono in assenza quasi totale di controlli; inoltre, i vari gruppi che si disputano la signoria sui territori di passaggio utilizzano i migranti come succosa e facile fonte di reddito.

Ad esempio, a occuparsi della sorveglianza sui 600 km di coste della Tripolitania libica – una zona caduta sotto il controllo delle forze ribelli al governo appoggiato dagli occidentali, che ha sede nell’altra parte del paese – ci sono solo due navi-vedette di stanza nel porto di Misurata, per metà devastato dalla guerra. Altre quattro navi sono in mano all’Italia che doveva riequipaggiarle, grazie a un accordo con il governo libico, ma non le ha ancora restituite perchè non c’è alcuna certezza del vero uso che ne verrà fatto.

Proprio il crollo della Libia subito dopo il rovesciamento del dittatore Mu’ammar Gheddafi fa sì che il paese sia diventato lo sbocco ideale per traffici illeciti di ogni tipo, e che i flussi migratori vi si concentrino, privilegiando la rotta su Lampedusa piuttosto che quelle dal Marocco o dall’Algeria al sud della Spagna, o dalla Turchia alle isole greche.

Il record di sbarchi registrati in Italia lo scorso anno (150 mila rifugiati e migranti tratti in salvo secondo l’Unhcr) si prepara a essere battuto nel 2015: l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati certifica già più di 30 mila arrivi in Italia e Grecia a metà aprile – cifra destinata a crescere con lo stabilizzarsi delle condizioni metereologiche: fonti libiche raccolte da Le Monde parlano di 300-700 uomini in partenza quotidianamente nelle giornate di bel tempo.

Gli Stati dell’Unione Europea hanno finora affrontato la questione come un fenomeno stagionale. L’operazione Mare Nostrum costava a Roma 9 milioni al mese, e secondo Human Rights Watch ha soccorso un totale di 100 mila persone. Tuttavia, data l’indisponibilità italiana a contrastare in solitudine un fenomeno che riguarda tutto il continente e la convinzione che una missione meno “generosa” scoraggiasse i migranti, i membri dell’Ue si sono accordati su un suo surrogato.

Sotto il nome di Triton, al costo di 3-5 milioni al mese spalmati sui 28 Stati contribuenti, l’operazione europea in vigore da novembre si limita al pattugliamento, e non alla ricerca e al salvataggio come in precedenza. La sua inefficacia, riconosciuta in febbraio anche dal commissario del Consiglio d’Europa per i Diritti umani Nils Miuznieks, è tristemente provata dal numero di morti registrati negli ultimi mesi, di cui la strage di domenica è solo l’episodio più evidente.

Cosa fare dunque? Considerando che la nostra frontiera è il mare e che non possiamo costruirci sopra un muro come hanno fatto gli Stati Uniti con il loro confine messicano, il modo in cui gli europei si misurano con questo epocale fenomeno dovrebbe cambiare attraverso una nuova assunzione di responsabilità, una revisione degli strumenti di intervento e un piano strategico di medio e lungo periodo. Il regolamento europeo di Dublino, finora in vigore, obbliga a che i migranti chiedano asilo nel paese di approdo: in questo modo l’onere di provvedere alle necessità delle persone soccorse ricade sempre sugli stessi paesi rivieraschi del Mediterraneo, nella proporzione del 70% sul totale dei rifugiati dell’Ue. La destinazione dei migranti è invece nella maggior parte dei casi Germania, Gran Bretagna, Svezia o Norvegia: Stati da cui è giusto pretendere un maggiore coinvolgimento.

Inoltre, l’Ue deve rivedere il suo atteggiamento nei confronti del Nord Africa. La stabilizzazione di tutta l’area deve diventare una priorità sulla quale avere il coraggio di investire risorse, così come una cooperazione allo sviluppo politico-civile che vada oltre il mero riconoscimento delle elezioni (che di per sé non certificano l’esistenza di uno Stato democratico) allargandosi al sostegno dei soggetti che con la loro attività rendono il pluralismo e la partecipazione una prassi diffusa. Risulterebbe difficile, altrimenti, ottenere una collaborazione allo stesso tempo efficace e umanitaria da Stati come l’Egitto, attraversati da moltissimi flussi di passaggio, o la Libia, molo di partenza per eccellenza.

Una collaborazione reciproca che è necessario mettere in pratica con pragmatismo e preparazione: l’impossibilità politica dell’accoglienza in ogni caso e per tutti e l’illogicità dell’opzione repressiva di chiusura dimostrano il fallimento degli approcci ideologici o estemporanei finora adottati.

Senza la collaborazione della Libia, attualmente uno Stato-fantasma, si va poco lontani. La cooperazione con i paesi a lei vicini è necessaria per sorvegliare le rotte percorse dai migranti fino al mare e per smantellare le reti di traffico di esseri umani che le utilizzano; la distruzione dei mezzi di trasporto usati dai criminali, proprio come avviene con l’operazione antipirateria Atalanta al largo della Somalia, potrebbe essere un buon inizio.

La chiusura delle frontiere in Europa provoca un aumento della clandestinità: sarebbe dunque meglio estendere la possibilità di chiedere asilo anche nei paesi nordafricani, e direttamente dai paesi nordafricani per tutti i paesi europei – magari armonizzando le politiche attualmente sbilanciate dei singoli Stati Ue in materia di status di rifugiato e asilo politico. Il peso delle richieste di asilo su Grecia, Malta e Italia dovrebbe essere sostenuto economicamente e amministrativamente da tutte le capitali europee.

Infine, le regole di ingaggio di Triton dovrebbero almeno essere riportate a quelle di Mare Nostrum,in attesa di costruire una maggiore integrazione con le forze di salvataggio e sorveglianza nordafricane – perchè non siano semplice assistenza in mare ma permettano anche un migliore contrasto al traffico di esseri umani. A tal fine l’Europa dovrebbe dotarsi di quella politica comune sull’immigrazione che finora gli Stati, gelosi delle loro prerogative nazionali, hanno rifiutato di concedere a Bruxelles. In mancanza di questa, l’Ue potrà solo continuare a stilare liste di buoni propositi.

Sulla sponda nord del Mediterraneo l’immigrazione continua ad essere usata con successo dai partiti populisti ed eurofobici proprio come prova dell’inefficacia e dell’inutilità dell’Unione Europea. Sulla sponda sud, non solo il crimine organizzato la utilizza come fonte di profitto e serbatoio di reclutamento, ma anche il terrorismo comincia a vedere il potenziale destabilizzante del fenomeno.

Non è la prima volta che l’esitazione e il cinismo degli europei aggravano problemi comuni a tutti i paesi del continente, sui quali si preferiva distogliere lo sguardo; in questo caso, non è difficile prevedere un’evoluzione ancora peggiore della già tragica situazione attuale, in assenza di adeguate soluzioni.



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