Pensioni flessibili, apertura di Poletti Quattro ipotesi allo studio del governo
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ROMA Una nuova modifica alle regole sulle pensioni è «all’ordine del giorno e il punto di decisione coinciderà con la nuova legge di Stabilità». Dopo l’intervista al nuovo presidente dell’Inps, Tito Boeri, è il ministro del Lavoro Giuliano Poletti a tornare sull’argomento, confermando che l’uscita anticipata dal lavoro con un assegno previdenziale più leggero è «una delle opzioni possibili». Nel merito della nuova legge di Stabilità si entrerà dopo l’estate. Ma nel cantiere sempre aperto della riforma delle pensioni i lavori sono già in corso, anche a un punto più avanzato di quello indicato dallo stesso Poletti. Sul tavolo, per il momento, ci sono quattro ipotesi. Una non esclude l’altra anche se è molto difficile che tutte e quattro entrino nella legge di Stabilità. Questione di scelte. E soprattutto di soldi.
La prima ipotesi è proprio quella della flessibilità in uscita, per «attutire» il colpo dell’innalzamento dell’età pensionistica arrivato con la legge Fornero. Il punto di partenza resta sempre il disegno di legge presentato dal Pd all’inizio della legislatura con la firma di Pier Paolo Baretta, poi diventato sottosegretario all’Economia, e Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera. Secondo quel testo, l’età della pensione diventerebbe variabile, tra i 62 e i 70 anni. Lasciando al lavoratore libertà di scelta. Chi va via prima dei 66 anni viene penalizzato, e incassa quindi un assegno più leggero; chi va via dopo i 66 anni viene premiato, e prende un assegno un po’ più pesante. Difficile che il governo riprenda in pieno questo progetto, in particolare quel «premio» dopo i 66 anni che appesantirebbe i conti della previdenza. Ma la penalizzazione al di sotto dei 66 anni, invece, è uno degli elementi presi in considerazione. Davvero improbabile, invece, che venga accolta la richiesta rilanciata ieri dalla Cgil: sì alle uscite anticipate ma senza riduzione degli assegni.
Sul tavolo del governo c’è poi l’ipotesi del reddito minimo, accennata dallo stesso presidente dell’Inps nell’intervista di ieri. È un vecchio pallino del professor Boeri, che prima ne aveva parlato come misura universale contro la povertà. E poi aveva proposto di limitarla alle persone più anziane, pur senza indicare una soglia d’età precisa. L’obiettivo sarebbe quello di una rete di protezione per gli esodati, quei lavoratori che dopo la riforma Fornero sono rimasti o rischiano di rimanere senza stipendio e senza pensione.
La terza ipotesi è il cosiddetto prestito pensionistico, studiato anche dal governo Letta ma mai attuato. In sostanza significa dare a chi esce in anticipo un piccolo assegno, tempo fa si era parlato di 700 euro al mese. Il «pre pensionato» lo dovrebbe restituire a rate una volta raggiunti i requisiti per l’uscita «normale» accettando però una riduzione dell’assegno. Non sarebbe una vera e propria flessibilità perché i limiti d’età resterebbero fermi e nel lungo periodo il gioco sarebbe a somma zero: quello che viene preso prima deve essere restituito dopo. Ma anche qui valgono i paletti di Bruxelles sulla flessibilità, raccontati dallo stesso Boeri: in materia di pensioni l’Unione europea vede solo l’aumento immediato della spesa ma non il fatto che più in là si risparmierà perché l’assegno sarà più basso per recuperare la somma anticipata.
L’ultima opzione, la quarta, è il ritorno alla cosiddetta integrazione al minimo. Di cosa si tratta? Chi ha cominciato a lavorare prima del 1995 aveva comunque a disposizione un paracadute: anche se i contributi versati erano pochi, la sua pensione non poteva essere più bassa di una somma pari a 502 euro, con l’eventuale differenza a carico dello Stato. Venti anni fa la riforma Dini ha eliminato quel paracadute. E le 51 mila pensioni liquidate finora con le nuove regole hanno un importo medio di 173 euro. Ben al di sotto della soglia di povertà. Nei giorni scorsi le Acli, le associazioni cristiane dei lavoratori, hanno lanciato una campagna per chiedere il ritorno dell’integrazione al minimo. Il costo stimato, per ora, è di 75 milioni l’anno. Ma è probabile che a regime la spesa salirebbe.
Sul tavolo del governo c’è poi l’ipotesi del reddito minimo, accennata dallo stesso presidente dell’Inps nell’intervista di ieri. È un vecchio pallino del professor Boeri, che prima ne aveva parlato come misura universale contro la povertà. E poi aveva proposto di limitarla alle persone più anziane, pur senza indicare una soglia d’età precisa. L’obiettivo sarebbe quello di una rete di protezione per gli esodati, quei lavoratori che dopo la riforma Fornero sono rimasti o rischiano di rimanere senza stipendio e senza pensione.
La terza ipotesi è il cosiddetto prestito pensionistico, studiato anche dal governo Letta ma mai attuato. In sostanza significa dare a chi esce in anticipo un piccolo assegno, tempo fa si era parlato di 700 euro al mese. Il «pre pensionato» lo dovrebbe restituire a rate una volta raggiunti i requisiti per l’uscita «normale» accettando però una riduzione dell’assegno. Non sarebbe una vera e propria flessibilità perché i limiti d’età resterebbero fermi e nel lungo periodo il gioco sarebbe a somma zero: quello che viene preso prima deve essere restituito dopo. Ma anche qui valgono i paletti di Bruxelles sulla flessibilità, raccontati dallo stesso Boeri: in materia di pensioni l’Unione europea vede solo l’aumento immediato della spesa ma non il fatto che più in là si risparmierà perché l’assegno sarà più basso per recuperare la somma anticipata.
L’ultima opzione, la quarta, è il ritorno alla cosiddetta integrazione al minimo. Di cosa si tratta? Chi ha cominciato a lavorare prima del 1995 aveva comunque a disposizione un paracadute: anche se i contributi versati erano pochi, la sua pensione non poteva essere più bassa di una somma pari a 502 euro, con l’eventuale differenza a carico dello Stato. Venti anni fa la riforma Dini ha eliminato quel paracadute. E le 51 mila pensioni liquidate finora con le nuove regole hanno un importo medio di 173 euro. Ben al di sotto della soglia di povertà. Nei giorni scorsi le Acli, le associazioni cristiane dei lavoratori, hanno lanciato una campagna per chiedere il ritorno dell’integrazione al minimo. Il costo stimato, per ora, è di 75 milioni l’anno. Ma è probabile che a regime la spesa salirebbe.
Lorenzo Salvia
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