Offensiva anti Isis nella città di Saddam Con l’aiuto dell’Iran
by redazione | 3 Marzo 2015 9:50
E’ iniziata ieri prima dell’alba l’offensiva contro le milizie dello Stato Islamico (Isis) asserragliate a Tikrit, nel cuore dell’Iraq sunnita. Pianura piatta, monotona, polverosa, solo il Tigri offre barriere consistenti contro l’avanzata di truppe e corazzati. Sono segnalati combattimenti pesanti, con già una trentina di morti e almeno il doppio di feriti. Bagdad utilizza massicciamente l’aviazione (gli americani specificano che i loro jet non sono coinvolti). I kamikaze del «Califfato» si lanciano con le loro autobomba contro le colonne nemiche.
Ma per il neo-premier iracheno Haider al-Abadi la sfida è al momento più politica che non squisitamente militare. Riuscirà il suo malconcio esercito a cooperare con le milizie sciite, con le forze scelte iraniane e allo stesso tempo spingere le grandi tribù sunnite locali ad abbandonare la pur fragile alleanza con l’Isis per tornare a schierarsi con Bagdad? La questione è centrale, qui si gioca il braccio di ferro con i jihadisti e la possibilità di continuare l’avanzata sino a riprendere la grande città di Mosul (che da più parti annunciano potrebbe aver luogo già entro aprile). Non è un mistero infatti che, sebbene il capo di stato maggiore iracheno abbia messo in campo oltre 25.000 uomini addestrati e armati dagli americani, sono in verità le milizie sciite locali, ma soprattutto i pasdaran iraniani, a fare la differenza. Senza di loro probabilmente la stessa Bagdad sarebbe stata occupata da Isis sin dal giugno-agosto scorsi, quando con una serie di attacchi dalla Siria si impadronì di circa un terzo dell’Iraq. In prima linea, nella zona di Samarra e tra i paesini a sud di Tikrit, si muove il generale iraniano Qassem Suleimani, comandante delle «Al-Quds», le unità scelte delle Guardie della Rivoluzione (pasdaran) specificamente incaricate da Teheran delle missioni all’estero. Le agenzie iraniane riportano che Suleimani starebbe semplicemente «supervisionando» la campagna. In realtà, i suoi soldati sono massicciamente impiegati nei combattimenti. Già l’agosto scorso erano evidenti nella battaglia per la cittadina di Amerli, dove avevano soverchiato anche gli alleati curdi, lanciando poi sanguinose missioni contro i villaggi sunniti verso Tikrit.
Come può allora al-Abadi convincere i sunniti che le milizie sciite e gli iraniani possono diventare loro alleati? Dopo tutto Isis aveva guadagnato le loro simpatie presentandosi proprio come paladino della causa sunnita contro l’Iran e lo stesso governo di Bagdad, accusato di fare esclusivamente gli interessi sciiti. Ieri il premier si è recato a Samarra, la città un centinaio di chilometri a nord di Bagdad dove l’anno scorso le milizie sciite locali avevano arrestato la corsa di Isis e ridato fiducia alla capitale impaurita e scioccata dal repentino sbandamento del suo esercito nazionale.
Ma Samarra è molto più che una roccaforte armata. Qui si trova la «moschea d’oro»: luogo sacro per gli sciiti di tutto il mondo. Al-Abadi l’ha scelta per offrire alle tribù sunnite «il perdono» per il «tradimento» dell’anno scorso, in cambio però dovranno abbandonare l’alleanza con Isis, altrimenti verranno «seriamente punite». Ma anche i jihadisti non stanno a guardare. Tikrit e la regione di Salahadin tutta attorno costituiscono a loro volta siti simbolo della narrativa sunnita: terra natale del condottiero che otto secoli fa sconfisse i Crociati, qui vive la tribù di Saddam Hussein battuta e umiliata dall’invasione americana dodici anni fa. Isis va per le spicce, come del resto ha già fatto nella regione di Al Anbar tra Falluja e il confine siriano, uccide i capi tribali che non offrono i loro giovani alla jihad, rapisce e decapita i renitenti.
Le scelte delle tribù sunnite sono così la chiave di volta per la sorte di Mosul e il futuro di Isis in Iraq.
Lorenzo Cremonesi