Netanyahu alla partita della vita Ma ex generali e 007 lo scaricano
by redazione | 15 Marzo 2015 10:15
GERUSALEMME A preoccuparlo è il partito dei pensionati. Un partito che non presenta candidati, non punta a conquistare voti ma scommette che sia lui a perderli. Ex capi dei servizi segreti, ex generali, ex ufficiali delle forze speciali, ex comandanti dell’aviazione — in pensione, ancora agguerriti — si sono coalizzati per ridimensionare il messaggio ripetuto da Benjamin Netanyahu durante la campagna elettorale: nessun altro può garantire meglio di me la sicurezza di Israele.
Giocando con il suo soprannome, il primo ministro si è presentato in un video come «Bibi-sitter»: l’unico adulto circ ondato da ministri bambini, inidonei a guidare la nazione in un conflitto (il bimbo che impersona Naftali Bennett, il più bellicoso tra loro, viene mostrato mentre muove i carrarmatini e i soldatini).
I 186 militari a riposo hanno messo tutta la loro tempra per spiegare che Netanyahu ha portato il Paese «a uno dei livelli più bassi dalla fondazione»: «La guerra eterna non è una strategia», sintetizza Shabtai Shavit, ex direttore del Mossad. Meir Dagan, altro capo dei servizi segreti, ha raccolto la vitalità che gli resta (ha subito un trapianto di fegato) per salire sul palco in piazza Rabin a Tel Aviv e proclamare davanti a 40 mila persone: «Israele è circondata da nemici, non sono loro a farmi paura. Mi spaventano i leader politici, la mancanza di visione e strategia».
La reazione del Likud alle critiche di Dagan — che i giornali definiscono un «vero patriota» — dimostra quanto la destra tema di perdere le elezioni. I fedelissimi del primo mini stro non hanno esitato a infangare l’uomo che pure gli è stato a fianco nella sfida contro l’atomica iraniana, sono arrivati a rinfacciargli di aver chiesto aiuto a Netanyahu per ottenere il trapianto. A due giorni dal voto, i sondaggi danno l’Unione Sionista guidata da Isaac Herzog in vantaggio di almeno quattro seggi, i vecchi laburisti (con nome nuovo e l’aggiunta di Tzipi Livni) tornerebbero a vincere le elezioni per la prima volta dal 1999. È allora che Ehud Olmert dichiara finita l’«era del prestigiatore»: Netanyahu viene sconfitto da Ehud Barak, sembra aver perso il tocco magico che gli permetteva di riemergere dalle crisi, lascia la politica, dice per sempre. Invece ritorna da leader del Likud, riprende il potere nel 2009 e arriva a totalizzare nove anni da primo ministro, più di David Ben-Gurion, il padre fondatore della patria.
La campagna elettorale del Likud è stata costruita attorno a lui, dai poster alle apparizioni televisive: stasera dovrebbe parlare in piazza Rabin, la destra si appropria del luogo simbolo della sinistra israeliana. Troppo poca visibilità — dicono adesso gli attivisti — è stata lasciata agli altri ministri, ai deputati che conoscono per nome gli elettori nelle piccole città. Netanyahu-Houdini non si sarebbe reso conto di aver perso la bacchetta dell’illusionista e il contatto con il Paese: «Una volta era la soluzione, ora è diventato il problema», commentano nel partito quelli che già pensano alla lotta per la successione.
No n sembrano bastati il discorso davanti al Congresso americano e la contrapposizione frontale — in nome degli interessi nazionali — con il presidente Barack Obama. Sembrano bastati il dossier del Ragioniere dello Stato sulle spese eccessive della famiglia Netanyahu (con soldi dei contribuenti) e lo scandalo soprannominato bottiglia-gate: la moglie Sara intascava i centesimi dei vuoti a rendere che sarebbero dovuti tornare nelle casse dello Stato. «Gli israeliani ne hanno abbastanza di Bibi — scrive Nahum Barnea, la firma più letta dal quotidiano più venduto — il fascino si è consumato, il tentativo di reinventarsi come il saggio anziano della tribù è fallito».
Il premier accusa proprio Yedioth Ahronoth e gli altri giornali «sinistrorsi» di aver organizzato una campagna («pagata da miliardari stranieri», scrive sulla sua pagina Facebook») per impedirne la rielezione. Ognuno dei «congiurati» avrebbe le sue motivazioni: le or ganizzazioni internazionali — commenta — vogliono il ritiro dai territori palestinesi e «la divisione di Gerusalemme».
In realtà la discussione su un eventuale accordo di pace è rimasta fuori dalla campagna elettorale. Gli israeliani restano più preoccupati dal costo della vita, dai p rezzi degli appartamenti che salgono, dalla crescente disparità sociale. Sono arrabbiati e uno spot anti Netanyahu mostra la loro furia, in banca, nella corsia di un ospedale, esplodere in schede di voto. «In questo fine settimana Netanyahu rifletterà su quanto sia stata una mossa azzeccata — ragiona Yossi Verter sul quotidiano Haaretz — licenziare due ministri tre mesi fa e puntare sulle elezioni anticipate».
Perché quei due ministri sono balzati fuori dallo sgabuzzino politico in cui in parte si erano cacciati, in parte li aveva richiusi il premier. Yair Lapid (bersagliato da responsabile delle Finanze) incarna di nuovo la speranza della classe media, Tzipi Livni — incaricata (e così dimenticata) di seguire le trattative senza scopo con i palestinesi — rischia di ritornare da vincitrice in coppia con Herzog. Gli analisti avvertono che la partita non è chiusa, ricordano il 1996 quando il laburista Shimon Peres era in vantaggio nei sondaggi e alla fine perse proprio contro Netanyahu. Che anche da secondo arrivato potrebbe essere l’unico in grado di mettere insieme la coalizione per governare, è già successo nel 2009. Il «prestigiatore», da ventidue anni sulla scena, prepara un ultimo stratagemma .
Davide Frattini