L’import da bloccare per salvare la Libia

L’import da bloccare per salvare la Libia

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La notizia è di ieri: abbiamo mandato le navi ad esercitarsi nel mare davanti alla Libia. Che non serva anche a proteggere le nostre forniture di gas?
Laggiù, tutti combattono tutti. Tre governi, a Tripoli, Bengasi e Tobruk, che si dichiarano legittimi; un Califfato autoproclamato; tribù che non rinunciano al controllo di territori che considerano loro. Un conflitto, anzi tanti conflitti, che richiedono continui rifornimenti di armi e mezzi comprati a caro prezzo sul mercato «libero» (nero) degli strumenti militari: un mercato illegale che da sempre sfida quello regolamentato, composto di norme, autorizzazioni e divieti predisposti ed applicati specie dai Paesi occidentali. Un mercato che, soprattutto, richiede molto denaro. Che alla Libia arriva dall’esportazione di petrolio e gas.
Ecco, il gas. L’Italia acquista tutto quello prodotto in Libia, dal momento che l’unico gasdotto esistente è quello tra Gela, in Sicilia, e la nostra ex colonia. Ed aumentare le importazioni conviene, causa l’andamento dei prezzi del petrolio e del gas estratto altrove. Fatto sta che — dati della Snam alla mano — nel 2014 abbiamo comprato dalla Libia l’11,8 per cento del gas importato, mentre nel 2013 ci si era fermati al 9,2 per cento. Anche il gennaio 2015 segna un incremento rispetto al gennaio 2014: 10,5 per cento contro 7,8.
L’invio delle navi non lontano dalla centrale di compressione di Mellita sulla costa libica — cioè l’impianto dove il gas viene lavorato prima dell’immissione nel gasdotto — potrebbe dunque apparire come una decisione presa nell’interesse nazionale. Ne siamo sicuri? Per l’acquisto del gas, paghiamo alla Libia poco meno di un miliardo di dollari l’anno. Prudentemente — e correttamente — il denaro viene versato alla Banca centrale libica, che distribuisce l’incasso tra le varie entità del Paese, secondo criteri e proporzioni non del tutto noti e controllabili. Come si utilizzano questi soldi? Difficilmente nello sviluppo di infrastrutture, nella costruzione di un ordinamento giuridico o di un sistema di welfare . È facile immaginare che la maggior parte sostengano l’acquisto di strumenti militari — certamente non autoprodotti dai libici — e quelle attività illegali che sempre prosperano nelle guerre civili. Che poi i beneficiari siano i cosiddetti governi, le tribù, l’Isis, poco importa. Il conflitto continuerà, il commercio di poveracci clandestini sbarcati in Italia pure ed i criminali prospereranno.
Forse una scelta di politica estera più «alta» potrebbe essere quella contraria: interrompere le importazioni di risorse energetiche, chiedere agli altri Paesi di fare altrettanto e tagliare un canale di sostentamento di quel disastro che anche noi europei abbiamo contribuito a creare. Disastro che, peraltro, ci costa in termini di controllo del mare, gestione dell’immigrazione e rischi per la sicurezza nazionale. Certo, resterebbe il problema di come reperire il gas di cui ci saremmo privati: ma di fonti alternative ne esistono, dai Paesi arabi alla Russia, che ha un disperato bisogno di vendere per incassare valuta estera. Ed il rischio di dover pagare un prezzo maggiore sarebbe mitigato dall’attuale eccesso di offerta di fonti di energia in giro per il mondo.
Tra le alternative di «spezzare le reni alla Libia» ovvero di perseguire un’illusoria politica di dialogo — con chi, peraltro? —, il blocco delle importazioni ridurrebbe il carburante che alimenta la guerra civile. Darebbe all’Italia l’autorevolezza per guidare, in questo caso sì, un processo di pacificazione dove l’uso della forza del denaro potrebbe rivelarsi più utile e meno rischioso di quello della potenza degli eserciti. Con un ruolo da protagonista nel Mare nostrum .
Alessandro Pansa


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