NEW YORK . Per oltre 70 anni il mondo è vissuto nel sistema di Bretton Woods: un ordine monetario americano-centrico, fondato su sua maestà il dollaro. Due istituzioni sono le guardiane di quell’ordine: il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale, ambedue con sede a Washington. Per la prima volta in questi 70 anni, l’America vede spuntare una sfida all’orizzonte. E la prende molto sul serio. La sfida viene dalla Cina, si chiama Asian Infrastructure Investment Bank. E’ modellata sull’esempio di altre banche regionali che non ebbero un successo strepitoso, come la Bers per la ricostruzione dell’Europa dell’Est nell’èra post-sovietica. Ma il caso della Banca Asiatica (Aiib l’acronimo inglese) è diverso, proprio perché c’è la Cina dietro. Cioè la prima o seconda economia mondiale — dipende dai metodi di calcolo del Pil, se misurato a parità di potere d’acquisto il sorpasso Cina-Usa è già avvenuto. Mai in precedenza gli Stati Uniti avevano avuto un rivale così temibile: non certo l’Unione sovietica che fu un gigante militare ma un’economia povera; non il Giappone o la Germania, tutt’e due potenze economiche ma “nani politici”. La Cina è un concorrente a tutti i livelli: commerciale, tecnologico, politico, militare. E ora perfino monetario, dopo la decisione di lanciare — con un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari — un’organizzazione sovranazionale di credito agli investimenti, sul modello della Banca Mondiale. Fino a poco tempo fa l’America snobbava l’iniziativa, pronosticava un avvenire deludente per la Banca Asiatica; e in parallelo esercitava discrete pressioni sui suoi alleati perché ne stessero ben lontani. Ma negli ultimi giorni Washington ha incassato uno smacco tremendo. Prima la Gran Bretagna, poi seguita a ruota da Germania Francia e Italia: le quattro maggiori economie europee, tutte appartenenti al G7, hanno deciso di entrare nell’Aiib. E’ una svolta, che almeno sulla carta rilancia le chance di questo istituto, gli dà una credibilità che finora mancava.
L’Amministrazione Obama ha aperto un fuoco di polemiche contro i “traditori”. Anzitutto contro il governo di David Cameron, visto che la defezione inglese è stata quella che ha scatenato il fuggi fuggi verso la banca d’impronta cinese. Cameron è stato accusato di “opportunismosistematico” verso la Cina. La Casa Bianca ha ricordato l’atteggiamento di basso profilo — per non dire pusillanime — che fu adottato da Cameron durante le proteste democratiche dei cittadini di Hong Kong. Pur di attirare capitali esteri nella City di Londra, suona l’accusa americana, Cameron è pronto a svendere i valori dell’Occidente. Una seconda bordata di ammonimenti è partita quando i governi tedesco, francese e italiano hanno seguito l’esempio inglese. Ai “continentali” l’Amministrazione Obama ha opposto critiche più “progressiste”. La linea americana suona così: noi non siamo contrari a nuove istituzioni che sostengano lo sviluppo economico in Asia investendo nella modernizzazione delle infrastrutture; ma una banca sovranazionale influenzata da Pechino può aggirare gli standard di protezione dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, sui quali la Banca Mondiale aveva fatto dei progressi negli ultimi anni. Un’altra linea di attacco riguarda la trasparenza finanziaria. Su questo terreno la Cina non è considerata un modello: il suo sistema bancario, ancora dominato dall’azionariato pubblico, è considerato pericolosamente opaco e soggetto a interferenze politiche.
Il fuoco di sbarramento americano ormai ha il sapore delle recriminazioni ex-post. Ai “traditori” della Vecchia Europa si è aggiunta perfino l’Australia, un partner fedelissimo agli Stati Uniti. La capacità di attrazione della Cina si sta rivelando irresistibile, perfino in una fase in cui il suo ritmo di sviluppo è rallentato nettamente (la crescita del 7% prevista quest’anno è la più debole degli ultimi 25 anni). Figurarsi cosa potrebbe diventare in caso di revival del boom cinese. Per ora l’Amministrazione Obama è costretta a ripiegare su una strategia di riduzione dei danni, esprimendo l’augurio che i nuovi membri della Banca Asiatica «la spingano ad adottare gli stessi standard severi della Banca Mondiale».