La polizia uccide un nero disarmato Obama a Selma: la marcia non è finita

La polizia uccide un nero disarmato Obama a Selma: la marcia non è finita

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NEW YORK . «Li chiamarono comunisti, li minacciarono a morte. La vera America erano loro: quelli che marciarono a Selma 50 anni fa perché tutti avessimo il diritto di voto. Fu una tappa nella nostra lunga odissea verso la libertà. Ma la nostra marcia non è finita ». Barack Obama nell’anniversario del Bloody Sunday parla all’America di una ferita che è tuttora aperta: la questione razziale. Via via che si avvicina la fine del suo mandato, il primo presidente afroamericano affronta con più coraggio la condizione dei neri. Lo fa in un momento critico, dove la comunità afroamericana è in agitazione. Mentre il presidente parla in Alabama, un altro ragazzo nero è stato ucciso dalla polizia a Madison nel Wisconsin. Si chiamava Tony Robinson, 19 anni, neolaureato. Le prime ricostruzioni ufficiali fornite dalla stessa polizia del Wisconsin alimentano nuove controversie: il ragazzo era disarmato, è stato ucciso durante un controllo di polizia dentro casa sua, gli agenti hanno sparato più colpi. Ancora una volta la sproporzione nell’uso della forza sembra evidente: come nei casi di Michael Brown a Ferguson (Missouri), di Eric Garner a Staten Island (New York), più di recente del senzatetto chiamato “Africa” a Los Angeles. Quando è un nero a essere fermato, la polizia sembra non avere ritegno nell’aprire il fuoco. Sicura dell’impunità: nessuna incriminazione dopo i casi ricordati qui sopra.
Lo stesso Obama a Selma cita la polizia di Ferguson, condannata da una recente indagine del suo Dipartimento di Giustizia. Il rapporto ufficiale degli inquirenti federali è tremendo. Descrive Ferguson come una cittadina dove vige un clima da apartheid. Dove la polizia (95% bianchi per una popolazione al 65% nera) ammanetta gli afroamericani senza una ragione, gli urla insulti razzisti, li stordisce con le pistole elettriche senza essere stata provocata, minaccia e intimidisce chiunque osi criticare questi metodi. Una cittadina dove per riempire le casse municipali si infliggono multe a raffica, fermando i neri anche solo per avere attraversato fuori dalle strisce pedonali. E tuttavia il poliziotto che lì a Ferguson l’anno scorso uccise Michael Brown, non potrà essere trascinato in tribunale, l’indagine del Dipartimento di Giustizia non può revocare la decisione del Gran Giurì locale che escluse qualsiasi processo. «Quello che è accaduto a Ferguson — dice Obama — non è un’aberrazione isolata, non è un caso limite. Sono cose che continuano a succedere nel nostro paese». L’elezione di un presidente afroamericano non ha segnato l’inizio di un’èra post-razziale. Le condizioni socio-economiche dei neri continuano a essere nettamente peggiori di tutto il resto della popolazione, immigrati inclusi: hanno un tasso di disoccupazione che è il doppio della media nazionale, il divario nei redditi e nei risparmi continua ad allargarsi; un giovane nero ha il quintuplo di probabilità di finire in carcere e muore per omicidio nove volte più spesso dei bianchi. Naturalmente una parte di questa violenza si esercita tra neri, non è “razzista”. Di qui una critica che emerge da alcuni pensatori afroamericani di stampo conservatore che accusano i bianchi con un argomento in contro-tendenza: smettetela di aiutarci, ci fate solo del male. Proprio nel cinquantesimo anniversario di Selma, il New York Times presenta due libri scritti da intellettuali neri di destra, Jason Riley e Shelby Steele. Uniti nella stessa denuncia: le politiche progressiste adottate negli ultimi cinquant’anni per “risarcire” i neri delle ingiustizie subite — come la “affirmative action” che ha agevolato le ammissioni alle università o le assunzioni pubbliche — sono state un disastro. In parte perché hanno perpetuato quella “cultura del vittimismo” che è il peggior nemico dei neri. «Lasciate che ci aiutiamo da soli, abbiamo bisogno di sentirci responsabili anziché cercare capri espiatori », è la conclusione.
Obama è attento a non cavalcare il vittimismo. «La sfida — dice il presidente — è lavorare insieme per risolvere il problema, non cadere nel cinismo di chi dice che nulla cambierà perché esiste sempre il razzismo. Non è così che si comportarono quelli che marciavano a Selma 50 anni fa. L’America è un cantiere in progresso. Amare questo paese non significa elogiarlo sempre, o evitare le verità scomode. Ha bisogno di essere sconvolta, di ricevere una scossa contro lo status quo».


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