Il Welfare secondo Pode­mos

by redazione | 8 Marzo 2015 18:48

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Set­ti­mana lavo­ra­tiva di 35 ore, per­messo di pater­nità equi­pa­rato a quello di mater­nità, scuole infan­tili e ospizi gra­tuiti. Sono solo alcune delle pro­po­ste con­te­nute in un docu­mento che potrebbe get­tare le basi per una rivo­lu­zione cul­tu­rale nella gestione delle poli­ti­che assi­sten­ziali. A fir­marlo l’esperta fiscale Maria Pazos e l’economista Bibiana Madial­dea, che su inca­rico di Pode­mos, hanno ela­bo­rato una pro­po­sta di taglio fem­mi­ni­sta per rifor­mare un set­tore dello stato sociale con­ge­ni­ta­mente «obso­leto, ingiu­sto, insuf­fi­ciente e inso­ste­ni­bile», come spiega María Pazos Morán, 61 anni, atti­vi­sta della piat­ta­forma inter­na­zio­nale per la parità di genere Plent e ricer­ca­trice dell’Istituto nazio­nale di studi fiscali, dove dirige il pro­gramma di poli­ti­che pub­bli­che e ugua­glianza di genere.
La pro­po­sta si basa su prin­cipi di soli­da­rietà, pro­por­zio­na­lità, cit­ta­di­nanza uni­ver­sale e indi­vi­dua­liz­za­zione dei diritti. Quasi un’utopia nel clima neo­li­be­ri­sta spa­gnolo…
In realtà si tratta di pro­po­ste con­crete e attua­bili, che sul medio ter­mine por­te­reb­bero note­voli bene­fici eco­no­mici e potreb­bero con­tri­buire al supe­ra­mento della crisi. Rior­ga­niz­zare le poli­ti­che assi­sten­ziali vuol dire anche razio­na­liz­zare la spesa e ridurre il rischio di esclu­sione sociale e povertà, attual­mente i prin­ci­pali osta­coli al con­sumo. In que­sti anni si è agito in senso con­tra­rio e i tagli e l’individualismo neo­li­be­ri­sta hanno con­tri­buito al dete­rio­ra­mento dello stato sociale, anche se il pro­blema va oltre l’insufficienza di risorse: non c’è dub­bio che siano neces­sari più inve­sti­menti, ma altret­tanto neces­sa­rio è rior­ga­niz­zare strut­tu­ral­mente e ideo­lo­gi­ca­mente il sistema.

Da dove biso­gna comin­ciare?
Il cuore del pro­blema sono le poli­ti­che di con­ci­lia­zione della vita fami­liare e lavo­ra­tiva. Attual­mente si incen­tiva l’abbandono totale o par­ziale del lavoro per chi si fa carico di man­sioni si assi­stenza: così si dispensa lo stato dall’assistenza dei più biso­gnosi per rele­garla all’ambito fami­liare, ovvero, per ragioni cul­tu­rali e sociali, a quello fem­mi­nile. Que­sta impo­sta­zione per­pe­tua una con­ce­zione dico­to­mica dei ruoli di genere, e crea ingiu­sti­zie che hanno un alto costo sociale. In primo luogo per le donne stesse, che sono osta­co­late nella loro rea­liz­za­zione lavo­ra­tiva, discri­mi­nate nella ricerca d’impiego e per­tanto più sog­gette alla dipen­denza eco­no­mica e all’esclusione sociale.

Ma anche per gli uomini, che ven­gono costretti al mar­gine dell’ambito fami­liare e delle cure. Inol­tre la rinun­cia al lavoro non è com­pen­sata: l’assistenza non è con­si­de­rata come un lavoro, non gode degli stessi diritti e pro­te­zioni, e dà luogo a feno­meni di segre­ga­zione e di eco­no­mia sommersa.

La vostra è una pro­po­sta fem­mi­ni­sta con­tro un wel­fare maschi­li­sta?
Più che maschi­li­sta direi patriar­cale, basato su un modello dise­qui­li­brato uomo-capofamiglia/sposa dipen­dente. Il nostro modello vor­rebbe rista­bi­lire un’uguaglianza di diritti e doveri che è van­tag­giosa per tutta la società: basti pen­sare al capi­tale umano che que­sta discri­mi­na­zione disperde. Per­tanto la nostra è una pro­po­sta fem­mi­ni­sta nel senso che punta a cor­reg­gere un ordine che allo stato attuale pre­giu­dica soprat­tutto le donne.

Su quali basi dovrebbe fon­darsi un sistema assi­sten­ziale egua­li­ta­rio?
È impre­scin­di­bile che l’assistenza esca dall’alveo della fami­glia, dove sarà sem­pre la donna a far­sene carico: per­ciò abbiamo insi­stito sull’individualizzazione e l’intrasferibilità dei diritti. Ma non è solo una que­stione di ugua­glianza e di eman­ci­pa­zione femminile.

I dati demo­gra­fici lo dimo­strano: la popo­la­zione invec­chia e nel 2040 il numero delle per­sone biso­gnose d’assistenza saranno il dop­pio che nel 2008. E se si aggiunge che meno del 20% dei bam­bini sotto i 3 anni va all’asilo per più di 30 ore alla set­ti­mana, risulta chiaro che il cam­bio di para­digma è urgente. D’altra parte non si tratta di affi­dare tutto allo stato, ma di creare cor­re­spon­sa­bi­lità e garan­tire diritti affin­ché uomini e donne pos­sano dedi­care indi­stin­ta­mente tempo all’assistenza fami­liare senza dover tra­scu­rare altri ambiti. In Sve­zia que­ste riforme sono state fatte verso la fine degli anni 60, in una società meno avan­zata di quanto non lo sia quella spa­gnola di oggi.

E per­ché, invece, in Spa­gna, come in molti altri paesi medi­ter­ra­nei, si è fatto poco o nulla?
Per­ché è neces­sa­ria un pre­cisa volontà poli­tica e un colpo di timone ideo­lo­gico, come quello che diede Zapa­tero con la riforma sul matri­mo­nio omo­ses­suale. Non si sta par­lando solo di un cam­bio di norme, ma anche di men­ta­lità e di valori.

Una riforma come que­sta è pos­si­bile solo all’interno di una catarsi sociale che sosti­tui­sca indi­vi­dua­li­smo e con­su­mi­smo con soli­da­rietà, edu­ca­zione, cul­tura, aper­tura all’altro. D’altra parte il fer­mento poli­tico e le istanze di cam­bia­mento che ven­gono dalla cit­ta­di­nanza fanno pen­sare che i tempi siano maturi.

Quali sono le misure chiave del vostro pro­gramma?
Nell’ambito della cura degli anziani, garan­tire a ogni per­sona il diritto all’indipendenza e a essere assi­stita in strut­ture sta­tali. Per quanto riguarda la maternità/paternità, la pro­gres­siva intro­du­zione del per­messo retri­buito al 100% e di uguale durata per entrambi i geni­tori indi­pen­den­te­mente dal sesso e dall’orientamento ses­suale. Le sole due set­ti­mane di per­messo per i papà (a fronte delle 16 materne, ndr) sono costate solo 200 milioni di euro nel 2014.

Esten­derle avrebbe un costo rela­ti­va­mente basso, ma ine­sti­ma­bili van­taggi: met­te­rebbe fine, in primo luogo, alla discri­mi­na­zione delle donne nella ricerca d’impiego e appor­te­rebbe evi­denti bene­fici nella cura del neo­nato. Per quanto riguarda l’educazione infan­tile, pro­po­niamo asili gra­tis fino a 3 anni, e set­ti­mana lavo­ra­tiva di 35 ore.

La misura più urgente?
Direi l’equiparazione dei con­gedi paren­tali. È la più emblematica.

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