Il futuro dell’Europa passa dagli investimenti pubblici puntiamo sul piano Varoufakis

Il futuro dell’Europa passa dagli investimenti pubblici puntiamo sul piano Varoufakis

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IL PRINCIPALE problema dell’Europa, si sente spesso ripetere, è che l’unificazione monetaria non è stata accompagnata da una vera politica fiscale comunitaria. E che senza una vera “unione fiscale” sarà impossibile uscire dalla crisi. Per “unione fiscale” si intende però soprattutto la necessità di correggere le differenze tra i Paesi.
OVVERO tra quei Paesi (fiscalmente irresponsabili) a cui è stato consentito di spendere troppo, finire nei guai e incrementare il rapporto tra debito e Pil e gli altri Paesi (fiscalmente prudenti) che si sono comportati in maniera responsabile, stringendo la cinghia e rendendosi più competitivi. “Unione fiscale” vorrebbe dunque dire che i Paesi deboli (Italia, Grecia, e via dicendo) oggi dovrebbero tagliare le spese … e naturalmente i salari dei lavoratori. Una soluzione, come è stato spiegato questa settimana a Cernobbio da Richard Koo (capo economista di Nomura ndr), Yanis Varoufakis e dalla sottoscritta, molto lontana dalla realtà. Per diventare competitivi servono investimenti intelligenti, non tagli.
Senza violare le regole di confidenzialità della conferenza di Cernobbio, quelle che gli anglosassoni chiamano Chatham House rules , permettetemi di elencare alcuni dei ragionamenti che abbiamo ripetuto nei nostri lavori ed interventi degli ultimi anni prima di incontrarci nella magnifica Villa d’Este sul lago di Como. Le posizioni convergono sull’idea che quando il settore pubblico “stringe la cinghia” peggiora la crisi invece che risolverla sia nel breve periodo (quando le imprese ed i consumatori privati stanno risparmiando) che nel lungo periodo (quando la vera crescita ha bisogno di investimenti strategici in nuove tecnologie e capitale umano). Quello che fa la differenza è il modo e la intelligenza con cui i soldi vengono spesi.
Cominciamo dal breve periodo. Richard Koo afferma da tempo nei suoi scritti che l’Europa ha confuso i propri problemi strutturali con i suoi, ben più urgenti problemi di contabilità in bilancio. Koo si riferisce al fatto che, come accade puntualmente durante le crisi determinate da un eccessivo debito privato, le imprese tentano di ridurre la propria esposizione finanziaria e, per quanto i tassi di interesse scendano si rifiutano di investire. È quanto vediamo succedere oggi: nonostante tassi di interesse pari a zero gli investimenti e la domanda non crescono e tutto ciò genera deflazione. Se, contemporaneamente al settore privato, anche quello pubblico inizia a comportarsi pro-ciclicamente, cioè a “stringere la cinghia”, si trasforma una recessione in una vera e propria depressione. Ed è proprio ciò che è accaduto.
Koo sostiene da vari anni che l’Europa dovrebbe imparare dagli errori compiuti dal Giappone, durante la crisi degli anni ‘90, quando il governo, ha aumentato le tasse e tagliato le spese; così il deficit, a causa dell’imponente calo negli investimenti e nella domanda, invece di ridursi è cresciuto del 70%. Purtroppo l’Europa non ha ancora imparato la lezione: i governi nazionali continuano a tagliare e il piano di investimenti “Juncker” della UE si basa sulla speranza ridicola che 21 miliardi possano produrre un coefficiente di leva pari a quindici, trasformando come per magia la cifra iniziale in un investimento di oltre 300 miliardi di euro.
Invece gli Usa la lezione giapponese l’hanno un po’ imparata, subito dopo la crisi, accanto al quantitative easing, hanno anche speso 800 miliardi di dollari in un piano di investimenti e di innovazione nel campo dell’energia rinnovabile di cui ci ha parlato a Cernobbio il brillante economista di Princeton Alan Kruegher che è stato il consigliere economico di Obama durante quegli anni. Una scelta anticiclica che nell’immediato ha fatto crescere il loro deficit del 10% (e noi ci mettiamo a litigare per un aumento del 3%!) ma che oggi produce risultati: il Pil cresce, il rapporto fra debito e Pil cala e la divergenza tra la crescita americana e quella dell’Unione Europea continua ad aumentare.
Veniamo al lungo periodo. Oggi in Europa i Paesi che se la passano bene non sono quelli che hanno stretto la cinghia, bensì quelli che hanno investito maggiormente in tutti quei settori ed aree in grado di determinare un incremento della produttività, come formazione del capitale umano, istruzione, ricerca e sviluppo, nonché nelle banche pubbliche e nelle agenzie che favoriscono le sinergie tra settori diversi ad esempio le collaborazioni tra mondo scientifico e imprese. Il problema dell’Italia non è il deficit eccessivo ma la mancata crescita, perché da almeno venti anni non si fanno investimenti di questo genere. Ciò che è mancato all’Europa quindi non è un piano comune di tagli ma un piano comune di innovazione e di investimenti. Che è ben diverso dal litigare sul fiscal compact.
È lo stesso piano di investimenti che Yanis Varoufakis teorizzava, prima di prestare la sua competenza di economista come ministro del governo greco. Varoufakis viene spesso accusato di essere un ministro troppo accademico e non abbastanza “politico” e concreto. Niente di più lontano dalla realtà. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno sono proprio i politici in grado di coniugare delle prospettive di ampio respiro con gli strumenti di intervento nel breve periodo. Varoufakis lavora dal 2010 a quella che chiama una «modesta proposta per l’Europa» un piano di investimenti che ponga fine alle divergenze competitive che impediscono di uscire dall’attuale crisi. Se fosse stato ascoltato 5 anni fa, non saremmo di nuovo nei guai con i vari possibili “exit” dei prossimi anni (e non solo quello greco!). La sua proposta mirava alla creazione di denaro da destinare all’attività produttiva. L’idea era favorire una crescita trainata dalla Banca europea degli investimenti attraverso l’emissione di bond destinati all’investimento produttivo — con la Bce pronta ad acquistare quei bond, che avendo un rating tripla A sarebbero stati molto meno rischiosi dei bond nazionali. Finalmente l’Europa ha approvato un piano importante di quantitative easing, ma questo non basta, perché occorre dare una direzione al nuovo denaro creato, per evitare che finisca soltanto nelle casse delle banche le quali non necessariamente prestano denaro all’economia reale. Purtroppo, sino a quando la Germania non ammetterà che le differenze tra paesi forti e paesi deboli sono dovute ai mancati investimenti strategici, finché non smetterà di proporre unicamente tagli ai bilanci nazionali, sarà difficile articolare una vera soluzione.
Per quante riforme strutturali si possano architettare, l’Europa non andrà da nessuna parte se non inizierà a programmare un futuro nuovo. Un futuro nel quale sia il settore pubblico che quello privato spendono di più nelle aree che favoriscono la crescita di breve e lungo termine. Proprio come su scala nazionale la Germania fa con il suo programma energiewende , che cerca di ottenere una vera trasformazione verde basata su nuove tecnologie e nuovi modelli di consumo e distribuzione. Insomma l’Europa dovrebbe fare come la Germania fa e non come la Germania predica ai Paesi europei in difficoltà. La «stagnazione secolare» non è affatto inevitabile, è un prodotto degli investimenti che decidiamo di fare o non fare. È ora di cambiare direzione, progettare, e creare, un progetto veramente comune.
( Traduzione di Marzia Porta)


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