C’È la foto di un’adunata infantile dello Stato Islamico: tutto repertorio diffuso da loro, propaganda fide.
Sono in file di dieci, con un capofila appena più grande, 12-13enne. Le reclute hanno uniformi mimetiche, cuffie nere coi versetti, scarpe da ginnastica o sandali (le scarpe sono sempre il dettaglio più renitente) e tengono gli occhi bassi, in segno di disciplina, immagino, solo che così sembrano, come sono, prigionieri. Da quelle file viene fuori il bambino che esulta dopo aver ucciso la cosiddetta «spia del Mossad». L’uomo barbuto accanto al bambino boia è Sabri Essid, fratellastro di quel Mohammed Merah, che nel 2012 a Tolosa assassinò tre militari, e altre tre persone, di cui tre bambini, all’ingresso della scuola ebraica. Forse il bambino boia è di famiglia.
I bambini non sono carta bianca, c’è almeno un palinsesto leggero nella vita di ciascuno, se non sia stato rubato nel ventre della madre, c’è dunque una possibilità di ritorno. Prima però ci sono bambini e ragazzi combattenti che sanno fare spietatamente ciò per cui sono stati coltivati e potati: uccidere e morire. Noi visitiamo i campi che accolgono senza numero bambini scampati al mattatoio, dalla Siria, dall’Iraq, con gli occhi pieni di rimproveri e tuttavia di speranze. Oltre la frontiera, dei loro coetanei, perché non sono scampati, o perché i loro genitori sono quelli da cui si deve scampare, imparano presto e bene, come piace al loro amor proprio, a marciare, urlare Dio quanto è grande, imbottirsi di esplosivi, decapitare bambolotti da apprendistato e infedeli da video.
Lo Stato Islamico, o Daesh, non deve invidiare i khmer rossi se non per la scala (e anche quella, diamogli un altro po’ di tempo e la raggiungerà) e caso mai li eclissa nell’invasamento: musica e lettura e sport sono il male per ambedue, ma per quelli era una capitolazione ideologica, per questi un peccato mortale contro il loro Dio. Il Corano mandato a memoria, il bando a ogni altra materia di studio e a ogni ricreazione, la dimestichezza con la ferocia fisica — il muso del cucciolo spinto nella ciotola di sangue, perché se ne impregni, fanno qui più metodicamente quello che altrove fanno l’alcool o le droghe.
Gli emuli nigeriani del Califfato mandano bambine o adolescenti a farsi esplodere nei mercati: forse illustrando loro la gloria dello sposalizio sacro che le attende, più probabilmente abusandole come ordigni viventi e telecomandati. Le bambine stanno un gran passo indietro, anche qui: fanno i servizi sessuali e domestici, e vengono promosse sul campo solo per farsi saltare con un po’ di nemici, cioè di gente inerme. Tuttavia non mi stupirò, Dio scampi, quando vedrò il video di una bambina che spara a un povero inginocchiato, magari con accanto una madre nera. Non mi stupirò di niente, e mi auguro che nessuno più si senta autorizzato a stupirsi, di niente.
A plasmare l’uomo, e farne un soldato, diceva la metafora di Machiavelli, meglio lavorare di scalpello su un marmo intoccato che su uno «male abbozzato da altrui». Dunque i contadini vanno meglio che i cittadini, e i montanari meglio dei contadini. Anche per Mao i contadini erano migliori, una carta bianca sulla quale l’uomo nuovo poteva essere liberamente disegnato, senza dover cancellare troppi segni vecchi. E i bambini sono la carta più bianca, la pietra più duttile a chi voglia cavarne il suo uomo nuovo.
Bambini e ragazzi furono le prime file della Grande Rivoluzione Culturale come del genocidio cambogiano: il primo cimento dell’addestramento riuscito, della liberazione dal vecchio mondo, sta nel forzarli a denunciare e uccidere i loro stessi genitori. I bambini, i cuccioli umani, non sono carta bianca, e tuttavia non c’è un limite oltre il quale la violenza e il fanatismo dei grandi non possano piegarli. Oggi sulla terra si contano 250 mila bambinisoldato. Ammaestrati a furia di sangue versato e di droghe trangugiate, a uccidere e mutilare a colpi di kalashnikov e machete. In un resoconto dalla Sierra Leone, lessi questa frase: «Poi gli misero le mani nelle tasche». Me la ricordo, perché voleva dire che misero le sue mani mozzate nelle sue tasche, dopo averle amputate, bambini a un bambino.
Noi siamo del mondo che riserva la tenerezza ai bambini e cerca di proteggerli. Offuschiamo i loro visi nelle fotografie e preghiamo che non vedano mai al telegiornale uno piccolo come loro, accanto all’uomo nero, che punta una grossa pistola alla testa dell’uomo arancione. Probabilmente ci illudiamo: lo vedono, lo vengono a sapere. Lo sanno che l’uomo nero esiste davvero, non è una favola per spaventare i bambi-ni. Il bambino nel telegiornale non sembra affatto spaventato. La coreografia dell’Is è l’anima del suo commercio. Hanno imparato da noi. C’è una folla impaurita che si apre davanti a un grande arabo avvolto di nero che fronteggia Indiana Jones roteando terribilmente la sua enorme scimitarra: finché il nostro, stufo, estrae la pistola e lo fa secco, «con calma olimpica» (così la Treccani).
Trattandosi di un film, la scena aveva un pizzico di razzismo. Nel mondo reale, quell’invasato in nero ha protratto l’esibizione, poi, visto il successo, ha usato la scimitarra per decapitare Indiana Jones e il mucchio di passanti locali. Noi stiamo riguardando all’infinito la scena, quella senza la pistola olimpica.
Chiedete a un pacifico abitante superstite di Raqqa o di Mosul quale speciale paura gli facciano i ragazzini incaricati di tenere l’ordine e fieri della loro bandana nera e del loro kalashnikov traballante. Un altro film, American Sniper, ha fatto storcere la bocca per la violenza o l’apologia o il compiacimento della violenza. Comincia con un bambino che avanza verso la missione suicida, e finisce con un altro bambino che rinuncia all’attacco suicida, e lo sniper deve decidere, la prima volta e la seconda. Imparai a contare in persiano vedendo plotoni di bambini marciare a Teheran alta scandendo: Yek, do, seh , un due tre, e poi, per battere il passo, Shahid! — martire! Bambini così venivano mandati a sminare sul fronte della guerra con l’Iraq: pesavano abbastanza.
Sulla terra ci sono centinaia di migliaia di minori che persone brave cercano di far risalire dal loro inferno di bambini soldato. La storia somiglia a quella del “ragazzo selvaggio” dell’Aveyron, che tanto appassionò e divise la Francia illuminata: si trattava là della sfida fra natura e cultura, qui, purtroppo, fra cultura e cultura.
C’è, in Siria e in Iraq e nel nord della Nigeria, il bisogno di una legittima difesa, e il suo opposto, la realtà di un’enorme omissione di soccorso. Gli uomini neri e vanitosi vanno affrontati per legittima difesa. Bisogna pregare che i bambini indottrinati e violati si salvino, poi sarà compito comune provare che l’umanità non è una carta bianca su cui si può scrivere indelebilmente ogni infamia.