Gli ultimi internati della nostra storia Così finisce un’idea di detenzione

by redazione | 9 Marzo 2015 10:29

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Ho sempre diffidato, anche letterariamente, di chi vedeva nella follia un accesso privilegiato alla verità. Eppure, mentre parlavo con gli internati dell’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa, ho avuto forte la sensazione che guardassero dentro un abisso che competeva anche a me — che compete a noi tutti —, con la sola differenza che su quell’abisso loro si sporgevano pericolosamente, e senza mai riuscire a distoglierne lo sguardo.
Ci sono efferatezze nel passato di molti degli internati del «Filippo Saporito» — aggressioni, violenze carnali, patricidi e matricidi — e altrettante sono le atrocità nel passato dell’Opg stesso. Qui entrò la commissione presieduta da Marino nel 2010 e si trovò davanti uno scenario raccapricciante: sporcizia, sovraffollamento, detenuti legati ai loro letti, pratiche che rasentavano le sevizie. A vedere il vecchio letto di contenzione che viene adesso conservato come una reliquia, con l’orrido buco al centro per le deiezioni dei malati, non si può non domandarsi come sia stato possibile che una misura simile fosse ancora in uso cinque anni fa. Ma sarebbe troppo comodo accodarsi alla scia dello sdegno comune, condannare gli Opg come luoghi isolati di sadismo sfrenato, senza rilevare la parte di responsabilità che ognuno di noi ha avuto in tutto questo: la convenienza di una nazione intera che, dopo avere applaudito a lungo se stessa per la chiusura dei manicomi, ha tollerato per decenni delle realtà perfino peggiori, in ragione della presunta pericolosità sociale di alcuni infermi.
Oggi, al «Filippo Saporito», si avverte soprattutto una specie di trauma al contrario. La diffidenza del personale nei riguardi del visitatore esterno, di colui che potrebbe giudicare, scrivere e così rinnovare la vergogna, è quasi invincibile, è la diffidenza di chi si è sentito maltrattato (seppure non del tutto ingiustamente) e utilizzato come capro espiatorio. Alcuni degli internati erano stati evidentemente «preparati» per il mio arrivo, al punto da lanciarsi in elogi irrefrenabili e un po’ goffi dell’Opg e del suo staff, ma l’intento dietro la «preparazione» non sembrava quello di mascherare qualcosa (ciò che andava svelato è stato svelato, credo), bensì l’ansia che un nuovo ciclone potesse scatenarsi. Molti degli operatori sanitari e di custodia che lavorano nell’Opg erano lì anche parecchi anni fa, hanno vissuto l’ospedale come un luogo con regole a sé, poi i riflettori impietosi e infine la brusca inversione di rotta. Non tentano di nascondere ciò che l’Opg era. La sola giustificazione che portano, e alla quale non è così difficile credere, è questa: «Non avevamo le risorse».
Non che l’Opg sia diventato un posto veramente gradevole, nel frattempo. Gli edifici sono tutti malmessi — finestre rotte, soffitti anneriti —, i bagni delle celle si presentano come corridoi angusti e tetri, mentre nel 9bis i servizi sono ancora in comune: alcuni internati sono recalcitranti a utilizzare le docce, ma a vederle non si può dare loro torto. Tutte le migliorie, mi spiegano, dalle parti ritinteggiate ai fornelli con le piastre a induzione per scaldare il caffè, dalla fattoria per la pet therapy alle aule dove si svolgono i laboratori, sono state realizzate su iniziativa spontanea del personale. Dopo la rappresaglia mediatica, si percepisce l’ambizione di migliorare e una psichiatra si lascia sfuggire il proprio rammarico: «Ciò che sta succedendo è un processo evolutivo, ma al tempo stesso ci sentiamo come se ci venisse tolta la terra da sotto i piedi, proprio mentre stavamo imparando a fare la cosa giusta».
Ciò che sta succedendo è la chiusura dei sei Opg ancora attivi in Italia. La data prevista è il 31 marzo e non si attendono proroghe. I circa 700 internati verranno ridistribuiti in base a un principio di appartenenza territoriale, affidati al servizio sanitario e alloggiati in comunità, case-famiglia o altri enti di accoglienza. Soltanto quelli considerati non «dimissibili», in ragione della loro pericolosità, saranno destinati a nuove strutture, più piccole degli Opg, battezzate Rems. Anche le Rems, tuttavia, saranno interamente affidate alla sanità: non penitenziari ridotti, dunque, ma luoghi di cura. In un quadro ristretto, questo è l’arrivo di un percorso iniziato con la denuncia della commissione Marino e la frase ormai celebre pronunciata dall’ex-presidente Napolitano, che parlò degli Opg come di un «estremo orrore, indegni di un paese appena civile». In un quadro esteso, la dismissione degli Opg è solo la tappa ulteriore di un cammino assai più lungo e faticoso, passato per gli sviluppi controversi della psichiatria e la legge Basaglia, e la cui immagine seminale si può attribuire già a Philippe Pinel. Nel 1792, Pinel fece togliere le catene ai «pazzi furiosi» di Bicêtre ed essi, invece di dare in escandescenze, camminarono incontro al loro liberatore, per ringraziarlo.
Viene da domandarsi perché, se certe idee circolano nella medicina da oltre duecento anni, ci abbiamo impiegato tanto, perché fino a ieri i detenuti psichiatrici del nostro Paese fossero la categoria più radicalmente privata di diritti, perfino di quelli fondamentali che assicurano la dignità dell’essere umano. La risposta era già in grado di fornirla Foucault, quando scrisse: «Quanto al malato mentale, egli rappresenta il residuo di tutti i residui, il residuo di tutte le discipline, inassimilabile a tutte quelle che si possono trovare in una società». In questa prospettiva, gli scempi perpetrati ad Aversa come in altri Opg della penisola non erano un abuso esclusivo di chi in quelle strutture operava, bensì la deiezione di un Paese intero, esso sì, ancora incatenato a un letto di contenzione fatto di paura.
Oggi sono molte le aree nelle quali la reclusione in Opg viene già evitata. E il numero esiguo di coloro che sono ancora internati potrebbe far pensare a un cambiamento marginale, più che altro simbolico. Eppure, è soprattutto così che una civiltà perfeziona se stessa: attraverso la destituzione di simboli che ormai appaiono sorpassati, deteriori.
Più che il passato sconcertante, occorre adesso considerare il futuro prossimo, che in questo «processo evolutivo» porta con sé preoccupazioni legittime da parte di molti. Da parte della popolazione, innanzitutto. La follia spaventa oggi come duecento anni fa. Se poi si accompagna ad azioni criminali, come omicidi o violenze sessuali ( un uomo che ha mangiato sua madre ), essa scatena suggestioni incontrollate, finisce per abitare il dominio del terrore. Ma al percorso di reintegro dei malati, accelerato dalla politica sull’onda dello sdegno, non si è accompagnata alcuna iniziativa di sensibilizzazione. È facile prevedere che, quando diverrà chiaro a tutti che all’interno delle Rems non vi sarà per legge alcun personale di custodia o vigilanza, si scatenerà un malcontento diffuso, se non addirittura una paranoia. Un’orda di pazzi violenti a piede libero , sarà il messaggio recepito da alcuni in assenza di un’informazione adeguata.
Al contrario, per gli attivisti di «StopOpg» e per molti psichiatri, l’istituzione delle Rems rappresenta una misura contraddittoria ed eccessiva. Essi ne denunciano l’inutilità, nonché il rischio che le Rems si tramutino presto in dei micro-Opg. Non vi è evidenza, sostengono, che i soggetti psichiatrici siano più inclini degli altri a ripetere le loro azioni criminose e forse è il concetto stesso di «pericolosità sociale» a essere errato: secondo Debuyst si tratterebbe soltanto di un retaggio antico, di una «malattia infantile della criminologia».
C’è poi il fardello che cade improvviso sul personale sanitario, investito di responsabilità nuove, come il mantenere un livello di sicurezza e ordine fra internati, senza l’ausilio dei secondini. Ad Aversa qualcosa di simile avviene già oggi, ma soltanto in zone specifiche dell’Opg, con pazienti considerati più «gestibili» e comunque con la possibilità di un intervento tempestivo da parte delle guardie. Come regolarsi nelle nuove Rems? Si dovrà assumere una vigilanza privata almeno per l’esterno? E dentro? I responsabili dei nuovi centri stanno affrontando un’infinità di dettagli scomodi, oltre a una burocrazia titanica che promette ritardi. Andrebbero evitate le sbarre alle finestre, per esempio (la Rems non deve ricordare un penitenziario), ma su chi ricadrà la colpa quando in un accesso di delirio il primo degli internati riuscirà a buttarsi di sotto?
Il nuovo assetto, più frammentato, sarà in generale meno controllabile di prima. Molti pazienti verranno affidati a enti privati, ad associazioni accreditate di vario genere, religiose e non, e per questi diverranno istantaneamente una fonte di profitto, con tutti i rischi ovvi che ne conseguono. In Italia, è difficile non essere attraversati da un fremito di inquietudine ogni volta che si sente parlare di «comunità» e «associazioni». Qualcuno scommette poi che la criminalità organizzata, quella tutt’altro che inferma mentalmente, stia già preparando dei dossier ad hoc per i suoi, con i giusti precedenti, le giuste perizie, per accedere in caso di necessità alle nuove strutture piuttosto che al carcere.
E infine, ci sono le ansie dei detenuti. Al «Filippo Saporito» ho cercato di capire quale chiarezza gli internati avessero dei cambiamenti in atto, del destino che li attende. Per lo più è emersa una grande confusione, qualcuno parlava frettolosamente di ritorno a casa, un altro ha evocato pieno di angoscia luoghi in cui si fanno «esperimenti sulle persone». Ho chiesto a M. se a casa sua, in Abruzzo, ci fosse qualcuno ad attenderlo. «Andrò a stare da mia madre», ha detto. Aveva una fiducia struggente in quel ricongiungimento. «La tua famiglia viene a trovarti spesso? — No, perché abitano lontano. — Ma qualcuno è mai venuto? — Le mie sorelle, una volta». Una volta. In nove mesi.
È questa, molto spesso, la realtà dei «residui dei residui»: un abbandono radicale che comincia in seno alla famiglia e si estende alla comunità, alla società tutta, lo stesso abbandono che ha perpetuato l’esistenza degli Opg, di piccoli inferni locali come quello di Aversa, proprio nel centro storico, a un passo dalle vie dei negozi e dei locali notturni. Non ci saranno molte famiglie pronte a riprendersi i loro folli, perciò quell’accoglienza viene richiesta a tutti noi in quanto cittadini. A partire dal 31 marzo vedremo sotto una luce nuova che tipo di Paese siamo, quale livello di maturità abbiamo raggiunto, con quanto coraggio siamo disposti a guardare dritto dentro l’abisso.
Paolo Giordano
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